Giotto Bizzarrini il Re di Torino

C’era sempre della magia nei Saloni dell’Auto, fino a sessanta anni fa, che accompagnava i sogni di chi poteva vedere e toccare con mano le novità del momento. Erano anni in cui chi poteva solo sognare un’auto era la maggioranza rispetto a chi poteva permettersela.

Eppure è stato il periodo in cui più di sempre il mondo dell’Auto fu popolato da piccoli e grandi Marchi creatori di veri sogni a quattro ruote.

Perché in primo piano c’erano sempre loro, i miti a Quattro ruote. Chiaro, il grosso delle attese del comune mortale era sulle “popolari” Fiat 1100, Autobianchi Primula, Ford Cortina, Opel Kadett, Innocenti, etc…; loro si occupavano di moltiplicare il trasporto su strada, e sempre loro davano forza e guadagno alla sempre più fitta rete di officine ed Autostazioni che stava nascendo.

Ma per alimentare il sogno della velocità e del desiderio le prime pagine erano delle “supermaggiorate” sportive e fuoriserie del tempo, che meritavano repertori fotografici e le recensioni delle Riviste.

Che tempi, a pensarci oggi: Enzo Ferrari diceva che vincere la Domenica era come fare pubblicità gratis.

Quanto aveva ragione, quando non c’erano i cellulari e la “Rete” era quella degli appassionati che agli albori prendevano in comitiva un treno prima ancora che albeggiasse, per seguire le Gare aperte al Pubblico o visitare da vicino Stabilimenti e Concessionari dei Marchi sognati, ma più spesso per raggiungere i Santuari dell’Auto, cioè i Saloni.

E le più premiate dalla passione e curiosità popolare erano le vincenti della Domenica anche negli anni Sessanta: in Italia Abarth, Alfa Romeo, Ferrari; dall’estero le MG, le Triumph, le Mini Cooper, ed in alto le Aston Martin e le Jaguar.

Inarrivabili e dunque ammiratissime anche senza vincere nulla in Europa erano anche le supercar americane.

Fu la stessa passione e passerella di primedonne in quel Salone di Torino 1963 aperto il 30 Ottobre e chiuso il 10 Novembre: Torino era culla mondiale dell’Auto come Detroit e più di Parigi, Londra e Berlino. C’era la crema dei Costruttori mondiali, oltre ai Marchi artigianali delle più straordinarie Supercar del momento. Ma anche i Carrozzieri con le loro opere dalle linee oniriche.

Fuori, in file lunghissime e pazienti i “visitatori comuni” non se ne avevano a male del fatto che contro ogni buonismo e falso egualitarismo Vi fossero anche ben distinte le vie di accesso per “VIPS” e – persino – per i potenziali acquirenti che avessero in qualche modo fatto pervenire le loro intenzioni ed offerte ai Marchi espositori; nella lunga fila “proletaria” il popolo degli appassionati aveva due soli capisaldi: essere davanti ai cancelli fin dalla prima apertura perché fino al ritorno in Stazione per l’ultimo treno avrebbero battuto metro per metro ogni angolo di Fiera; e poi il ripetuto richiamo ai giovani figli in carovana sul divieto assoluto a comprare alcunchè ai banconi di Gastronomie e Bar, visto che le perfette organizzazioni familiari del tempo assemblavano puntualmente una mezza dozzina di panini assortiti a frittate e formaggio, più la immancabile damigiana di vetro per il dissetamento, con la fatidica mela delle quattro pomeridiane per gli incontentabili stomaci dei giovani.

Ovviamente il giorno più ambito era quello dell’inaugurazione: addirittura i più intraprendenti tra ragazzi e giovani uomini giravano quella mattina intorno ai camion e furgoni degli espositori – in sosta davanti alle strutture – per offrirsi come aiutanti volontari (in cambio di ingressi gratuiti) per l’inevitabile completamento di tendoni e spazi di esposizione che spesso erano ancora quasi incompleti all’atto dell’apertura Kermesse. Davvero altri tempi, strano averli dimenticati così in fretta. Ci si arrangiava, senza tanta burocrazia ma con una spinta data dalla passione.

I Saloni Auto, il Paradiso degli appassionati

Ma il giorno dell’inaugurazione era simbolico e dunque foriero della visita al Salone di Vip e celebrità di ruolo: dal Presidente della Repubblica e Sindaco della Città che aprivano con il classico taglio del nastro, alla visita delle Star dello Sport e del Cinema, che così potevano essere avvicinate dal comune spettatore per la prima volta.

Unica regola valida per tutti: accaparrare tutto quel che – gratuitamente – era possibile quanto a penne, block Notes, Agende, stemmi ed adesivi, spillette, gadgets, Brochure, foto, Poster, e quant’altro da poter mostrare con orgoglio ai compaesani al ritorno: erano i trofei di guerra “pesanti” che portavano in calce i nomi gloriosi, e certo erano molto più emotivi delle classiche USB Pen con cui una generica ed inanimata presenza agli Stand oggi ti dice al più :”Guardi, qui dentro trova tutto: Jpeg, PDF, MediaKit, Press Pack, MeetingPoint, Link. Tutto!!

Pensi! Pure il telecomando dell’auto che si è perso in mezzo al divano l’anno scorso…”.

Bene: battute a parte, tra i nomi altisonanti e già blasonati delle vedette in vista al Salone, ce n’era uno ancora non proprio famoso agli occhi del mondo, che però era presente con la sua firma apposta su ben 3 Supercar presenti in esposizione, e questo non era di certo un fatto “comune”.

Quel nome, dal recente passato in casa Ferrari, era quello di Giotto Bizzarrini, genio livornese che aveva da poco aperto la sua attività privata con la “Autostar”.

Giotto aveva seguito il gruppo di Dirigenti e tecnici fuoriusciti da Maranello nel 1961 lasciando in eredità al suo successore Mauro Forghieri la “Papera” (alias “Anastasia” alias “il Mostro”), prototipo precursore della “250 GTO”; ma aveva inserito nei canoni progettuali e filosofici della classica Ferrari il suo personale tocco fatto di stile al servizio dell’aerodinamica e della perfetta efficienza dinamica del mezzo.

Senza Bizzarrini un pezzo di Ferrari – come ora è diventata – non sarebbe lo stesso. E dicendolo non si fa torto a nessun altro dei suoi onorevoli colleghi, precursori e successori.

Uscito da Ferrari, la breve parentesi con ATS lascia spazio ad una nuova esperienza da autonomo.

Incredibile a dirsi, il primo Cliente di Giotto glielo procura proprio Enzo Ferrari: E’ la “A.S.A.” di Lambrate, marchio della famiglia De Nora, che sviluppa una vetturetta sportiva da soli 1000 cc. la cui incubazione è proprio tra Maranello e Grugliasco (Bertone) ed al cui sviluppo dentro al Cavallino aveva partecipato attivamente proprio Giotto Bizzarrini. A.S.A. diviene così Committente della “Autostar”. Come nasce questa nuova realtà automobilistica, fatta ad immagine e somiglianza di Giotto?

Giotto Bizzarrini e la “Autostar” a Livorno

il vero inizio di tutto è nella Sede Legale di Viale Giosuè Carducci (“ex”) 37: non sappiamo se questa Sede la scelse direttamente Giotto, o se lui stesso confluì in questo ufficio registrato per la Rappresentanza della “Campagnolo Amadori” fin dalla Primavera del 1962; certamente in questo passaggio il genio livornese trovò accanto anche l’Ingegner Luigi Maltinti, suo iniziale “socio”, che probabilmente era tra i due sia il diretto referente per la rappresentanza sia il “luogotenente” di Giotto quando questi era in trasferta per seguire i progetti che nascevano oltre Livorno.

Tuttavia la sede di Via Carducci non aveva lo spazio necessario da offrire a Bizzarrini per lavorare di Officina sui suoi prototipi: motivo per cui inizialmente fu trovata una “sede operativa” al numero civico “attualmente” 112 di Viale Ippolito Nievo, che nello specifico si trova oggi non su un affaccio diretto al Viale ma in un viottolo di rientro che dà anche sull’ingresso di un magazzino del Supermercato vicino: qui, nei pochi metri quadri di un vero e proprio Garage con annesso bagnetto di fortuna, nacque la prima leggenda.

Viale Carducci 37 fu chiusa molto presto per trasferire tutto a Viale Ippolito Nievo, dove poco vicino si trovava l’officina del papà di quello che fu, dopo Mauro Prampolini, il secondo giovane collaboratore di Bizzarrini: Paolo Niccolai, al tavolo da disegno, era impegnato fondamentalmente nei disegni tecnici affiancato appunto da Prampolini come responsabile primo di Officina e lavorazioni; a loro seguì subito dopo un giovane e già bravissimo esperto di saldatura e trattamento metalli come Paolo Sancasciani; mentre per tutto quello che poteva riguardare i Layout “stilistici” o di Design, Giotto non si fece mancare la collaborazione con un promettente concittadino come Piero Vanni, nuova promessa dell’arte e del disegno industriale.

Una sorta di “fabbrica dei sogni” che realizzava anche il paradigma cui Giotto cercò di essere fedele fin da subito: quello di fare da atelier e scuola in un certo senso per tutti i giovani che volessero affrontare un percorso professionale e lavorativo.

Questo desiderio Bizzarrini lo espresse persino pubblicamente affermando che il suo sogno sarebbe stato quello di aprire dentro Livorno Centri professionali per insegnare ai giovani i segreti e gli Skills per lavorare nel mondo che era diventato il suo. Ma intanto, in una superficie di poche decine di metri quadri (in parte occupate da un “casottino” separato con scrivania e parete allestita con i prodotti della Campagnolo Amadori) il miracolo contrario ad ogni comune legge architettonica riusciva comunque a trasformare in factory per prototipi da sogno un ex Garage dove armeggiavano tutti insieme appassionatamente: un meccanico con relativo bancone, utensileria e ponteggio da lavoro; più di un tecnigrafo con disegnatore, un saldatore ed esperto fabbro; una segretaria eroica; episodicamente un Designer come Vanni e la sua leggendaria “lavagnetta”; e lo spazio per almeno una macchina su cui lavorare, con il metro quadro residuo che è quello che restava a disposizione di Giotto per presenziare e supervisionare di persona.

Perché – dove, come e quando poteva – Bizzarrini era là a controllare, non certo per sfiducia ma per ricostruire passo passo nella visione delle lavorazioni dei suoi collaboratori ogni possibile miglioria o modifica in corso d’opera.

Se però la dimensione artigianale, “pret a portair” e lillipuziana di Viale Ippolito Nievo Vi può sembrare un limite per lo sviluppo di una attività entrata nella leggenda, prendete nota: dentro “Autostar” (intesa come attività autonoma iniziale di Giotto) prendono corpo i progetti della A.S.A. 1000 Corsa e di un prototipo derivato da quest’ultima, ed i modelli ultimati vengono messi alla frusta nelle competizioni ufficiali più importanti; in Autostar nasce il motore a 12 cilindri 3500 della Lamborghini, quello che supera di quasi dieci cavalli il limite già pretenzioso imposto a Giotto da Ferruccio, e che farà la fortuna di Sant’Agata per quasi trent’anni con una serie infinita di “upgrade”; e da Consulente titolare della “Autostar” Giotto Bizzarrini inizia il suo rapporto con la “Iso Autoveicoli” di Bresso a partire dalla “IR 300 GT”, un altro traguardo della Autostar che apre ufficialmente la stagione delle Supercar iconiche del Commendator Renzo; infine Autostar è la mamma tutta livornese delle “Iso A3/C” che rimangono ovviamente iconico fiore all’occhiello della leggenda di Giotto.

Le “Regine” : nate in una “mangiatoia”

Non può non suscitare scalpore la visione di una sorta di autorimessa adattata con pochi strumenti a factory generatrice di progetti straordinari: soprattutto se messa a confronto con le strutture e gli investimenti dei concorrenti destinati delle supercar di Giotto.

Eppure è questa la cornice a quello che Bizzarrini ha materialmente dato vita in quel 1963.

Il rapporto con Renzo Rivolta (oltre alla coda dei progetti con la A.S.A. dei De Nora) e con Ferruccio Lamborghini nasce in seno alla esperienza “Autostar” insieme alle collaborazioni necessarie per dare vita a tutto il “continuum” necessario a realizzare l’opera finita (la Carrozzeria Neri&Bonacini”, ad esempio, così’ come le Officine Marchesi a Modena, etc…).

Ed ecco là, in quel Salone di Torino del 1963 brillare almeno tre dei cinque gioielli che in quell’anno avevano preso vita anche grazie alla mano di Giotto: assenti la “ATS 2500 GT” (presentata al Salone di Parigi) e la “A.S.A. GTC 1000” da competizione battezzata in Pista e non nelle Kermesse pubbliche, il palcoscenico del Salone sabaudo viene catalizzato dalla spaziale “Iso A3/C” nello Stand del marchio di Bresso; dalla carismatica “Iso A3/L” esposta da Bertone, e per la quale Giotto aveva rielaborato il motore “Chevrolet V8” portandolo a canoni di sportività mai visti prima (oltre ad aver collaborato con Pierluigi Raggi nel layout del telaio e degli assetti generali); ed infine appare per la prima volta al Salone un Marchio destinato a condividere la leggenda di antagonista principe del Cavallino.

Quel 12 Cilindri di Giotto a Sant’Agata: lo “Chevy” italiano

E’ la Lamborghini che presenta la sua opera prima nella “350 GT” disegnata dalla mano magica di Franco Scaglione. Come al solito avanti di un decennio rispetto alla concorrenza stilistica pur sapendo rimodulare particolari e canoni di periodi precedenti, il Maestro affascina con una Gran Turismo che unisce classe, rappresentanza e sportività. Il lunghissimo cofano, frutto anche della interazione comunicativa e di confronto tra Scaglione e Bizzarrini, ospita al suo interno il “cameo” di Giotto: il 12 cilindri da 3500 cc che Ferruccio aveva commissionato al livornese e che – pochi sanno – era stato però sviluppato a Cento nella sede industriale dei Trattori Lamborghini, poiché la sede di Sant’Agata era in piena costruzione fino all’estate di quel 1963.

Un motore che merita ed ha meritato la bibliografia di supporto editata fino ad oggi; un motore che è arrivato praticamente quasi invariato se non nella cubatura fino ai primi anni Ottanta; e che certo è parte del salvataggio di Lamborghini nel periodo più drammatico del fallimento di fine anni Settanta.

Pochi sanno che un fronte di Business ideato all’epoca per la rinascita commerciale di Sant’Agata dopo il crack ed i passaggi “di mano” fino all’ingresso di Chrysler, fu quello della nautica sportiva e delle gare di Velocità con i cosiddetti OffShore.

Ebbene, sia per la indubbia disponibilità monetaria di Armatori e Clienti del mondo della Motonautica di prestigio, sia per il ritorno mediatico dato dal sempre maggiore interesse per le Gare, la “nuova” Lamborghini avrebbe dagli anni Ottanta varato il suo modello nautico del 12 cilindri di Giotto.

Che carriera, dunque: sempre sotto i cofani delle supercar, persino di un maxi Suv (lo “LM 002”), ad un passo dall’ essere dentro Prototipi da Gara, ma soprattutto vincenti dentro le Barche di velocità. Insomma, per il motore di Giotto vale proprio la definizione data da alcuni esperti di “Chevy italiano”.

Progettato dall’uomo che in Ferrari aveva battezzato il passaggio epocale alla “250 GTO” per Lamborghini quel motore doveva essere il vero “timbro di fabbrica”. Non era facile, ma quella scommessa riuscì.

Il 12 cilindri di Giotto e dello Staff Lamborghini che lo affiancò’ tra Livorno e Cento fu un manifesto di indipendenza sia dalla monarchia del Cavallino sia dal prestigio e dal pedigree offerto dalle supercar inglesi.

ISO A3C – Terribile anche da ferma

Ma se la “Grifo” nel 1963 è ancora un sogno chiuso nel limbo del prototipo A3L di Bertone, la magia di Giotto da’ il suo meglio allo Stand della ISO. Qui, vicino alla “300” c’è qualcosa di mai visto, leggiadro e diabolico allo stesso tempo; capace di trasmettere persino da fermo la sua indole feroce.

E’ la A3C, macchina da guerra nata per portare il nome di Renzo Rivolta sul tetto del mondo sportivo: Giotto l’ha voluta e creata per battere in Pista le regine Ferrari GTO e Jaguar, ed infatti debutterà a Le Mans nel clamore generale. Pensate però che questo gioiello nasce come trionfo della semplicità e del genio: nessuna attrezzatura raffinata o catena di montaggio in quel Garage della “Autostar” di Via Nievo a Livorno dove solo la passione di un gruppo di ragazzi (Pietro Vanni allo stile, Paolo Niccolai al progetto e Mauro Prampolini e Sancasciani e Pietro Corradini alla parte pratica e costruttiva) scelti da Giotto riesce in una impresa che ha del mitologico.

Persino la sua linea ha del leggendario: aneddoto forse poco conosciuto, ma al quale si deve l’embrione formale della strepitosa “Iso A3/C”, si narra che addirittura il concetto di stile sarebbe nato durante un confronto creativo tra una “battaglia all’ultimo colpo di……gessetto” tra Giotto e Pietro che tratto a tratto – su una lavagnetta affissa su una parete proprio dentro Via Ippolito Nievo – avevano abbozzato le linee discriminanti sulle quali ovviamente il talenttuoso Vanni elaborò il bozzetto di stile a partire dal quale la matita divina di un giovane Giorgetto Giugiaro (presso la Bertone) avrebbe imposto il suo crisma inconfondibile.

Nasce così quella che in quel Salone e nel mondo è e rimarrà una tra le piu’ basse, filanti, semplici, veloci, poderose e seducenti Gran Turismo di sempre, nata per cambiare i canoni dell’auto sportiva.

Nulla in lei è superfluo, e tutto quello che la compone sembra darle vita e respiro. Di certo, Giotto Bizzarrini non poteva dare alla luce gioiello migliore per consacrare il suo genio infinito.

Auguri dunque, Iso A3C che dopo sessant’anni non smetti di stupire. E grazie, Giotto.

Riccardo Bellumori

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