Quanti di voi, fin da piccoli, si sono imbattuti in modellini, poster o filmati di quelle affusolate automobili blu dalle ruote scoperte e dall’iconico radiatore capeggiato dall’ovale rosso Bugatti. Per la maggior parte delle persone infatti la storia del marchio Bugatti si riassume in due epoche. Gli albori, sotto la guida del fondatore Ettore, grazie al quale abbiamo ancora oggi dei veri e propri capolavori di artigianalità e tecnica su ruote, stimati in milioni e milioni di euro. Poi c’è il post con la Veyron sotto il controllo Volkswagen fino ai giorni nostri con le ultime one-off che sono l’incarnazione dei sogni più sfrenati di lusso e potenza. C’è stata però una parentesi particolare nel corso dell’esistenza del marchio della quale mi sono follemente appassionato essendo andato a visitare il luogo dove tutto questo è avvenuto. Un tempio dell’automobilismo che ormai è decaduto anche se ancora amorevolmente curato dalla famiglia che l’ha custodito e accudito per 3 generazioni. Ecco la fabbrica blu, lo stabilimento Bugatti edificato a Campogalliano in provincia di Modena nel 1990 da un imprenditore illuminato, che ha creduto nei suoi sogni e li ha tramutati in realtà, Romano Artioli.
Immaginate una giornata di inizio primavera, con un sole caldo e un cielo azzurro che sembra copiare il colore della scritta BUGATTI AUTOMOBILI che campeggia a fianco del cancello di ingresso, è qui che incomincia a salire l’emozione.
Una volta varcato il confine della proprietà si viene catapultati in uno stato di curiosità e scoperta tipici dei bambini, pronti ad assorbire ogni singola immagine, ogni singola parola che ci viene fornita con molta semplicità ma allo stesso tempo con grande rigore riguardo ai fatti storici. Dopo i primi dieci minuti di presentazione della storia del marchio ci incamminiamo lungo i viali asfaltati e subito colpisce la progettazione dell’intero complesso; dalle forme sinuose delle collinette create artificialmente alla posizione di ogni singola pianta, studiata appositamente dall’architetto per garantire armonia e una fioritura costante in tutti i periodi dell’anno. Poi inevitabilmente si viene rapiti dallo stabile che si erge in prima linea, una struttura semicircolare su tre piani completamente vetrata, un cilindro sul quale si specchia l’azzurro del cielo che lo fa sembrare a quelle colonne di lapislazzulo che nell’antichità rappresentavano ricchezza e prestigio. Questo edificio sarà l’ultimo della visita perché forse il più evocativo.
Proseguendo sul lato a questo punto appare la fabbrica in tutta la sua presenza scenica, il cilindro iniziale, poi, un cubo sempre completamente di vetro dagli spigoli così definiti che sembrano in grado di tagliare toccandoli, una fila di aste adibite a portabandiera. Ecco poi il cuore pulsante della fabbrica, il reparto produzione dove uscì nel 1992 un modello frutto dell’ingegno e della maestria tipica del nostro made in italy, la Bugatti EB110 sulla quale non mi dilungherò perché avrebbe bisogno di articoli interi solo per lei.
Iconico è in questo complesso di edifici il design, in tipico stile industriale, ma con quel tocco in più, una ripetizione del fregio EB a caratteri cubitali per sottolineare la forte identità della fabbrica e l’ovale rosso, apprezzabile ormai solo nelle foto di repertorio, con la scritta Bugatti su uno stabile completamente blu, come se fosse anch’esso fatto di quelle carrozzerie blu che sfrecciavano negli anni 30.
Cominciamo ad entrare proprio in quest’ultimo, che accoglieva le ben cinque sale prova per i motori in fase di sviluppo, un primato in quegli anni pensando che altre case automobilistiche blasonatissime ne potevano vantare solo 3. Entrando la temperatura cala drasticamente, come quando si entra nelle chiese monumentali e qui cala anche un silenzio per rispettare quell’ambiente che al contrario era caratterizzato dal boato squarciante dell’urlo dei V12 tirati al massimo dei giri.
Non rimane più nulla all’interno se non cavi, polvere e oscurità, infatti come se servisse specificarlo tutta l’area è prima di allacciamenti quindi in questa parte si scoprono i dettagli a colpi di flash delle reflex o di qualche torcia. La costruzione era stata pensata appositamente per trattenere calore, rumori e per essere sicura in caso di qualche malfunzionamento visti gli elevati rischi, dato che erano presenti ben quattro serbatoi di carburante con diverse composizioni di benzina per rendere performanti i motori in tutte le condizioni nelle quali si sarebbero trovati a lavorare in giro per il mondo. Qui cominciano a salire i brividi lungo la schiena provando ad immaginare, come in quelle fantastiche ricostruzioni a spot che Cameron ha diretto in Titanic, la vita e le attività vissute da ingegneri e operai, tutti nelle diverse divise ufficiali fornite da Artioli il quale passava ogni lunedì a salutare praticamente quasi tutti i lavoratori, creando quel clima di apprezzamento e rispetto che Ezio Pavese, custode e guida, ha sottolineato sempre con convinzione, tanto che, come racconta, era obbligato a far uscire anche dopo le undici di sera i tecnici e i progettisti completamente assorbiti e appassionati dal loro lavoro, perché doveva chiudere i cancelli.
Passiamo attraverso un corridoio ed entriamo nel reparto di test delle trasmissioni 4×4 della EB110, qui le auto erano lanciate staticamente ad elevate velocità e venivano monitorate da una stanza adiacente attraverso una vetrata tramite un pannello di controllo del quale ora resta solo la sagoma e gli ancoraggi al suolo, di là, solo una grande voragine che ospitava tutta l’attrezzatura, acquistata durante il processo per fallimento dal gruppo Volkswagen. Ancora un tuffo al cuore ma è ora di uscire di nuovo al sole e al caldo; ci incamminiamo verso l’edificio dalla inconfondibile struttura a shed ed entrando ci si stupisce per l’inaspettata luminosità e vastità dovute entrambe sia alla pavimentazione in piastrelle bianche che alla particolare struttura architettonica con finestrature su tutte le pareti che più che amplificare gli spazi danno proprio la sensazione di trovarsi all’esterno. Pulizia e rigore erano la prassi, coaudiuvate anche dalle avanguardistiche attrezzature che si calavano direttamente dall’alto in modo tale da non avere fili o utensili sparsi al suolo, che potevano rivelarsi di intralcio.
Poi girati alcuni corridoi ci si imbatte in un pezzo di storia vero e proprio, l’unico che è rimasto e che, con uno stratagemma, non sono riusciti a portar via: un porta, di legno, che arrivava direttamente da Molsheim, dall’officina di Ettore. Ormai si è completamente assorbiti in un nostalgico amarcord e sembra impossibile che tutto questo centro di innovazione abbia fatto la fine che abbiamo di fronte, ci si indegna da un certo punto, perchè far finire un mito che era rinato dal nulla dimostra proprio la cattiveria che a volte ci contraddistingue; ma tant’è, ormai è storia.
Concludiamo la visita nei due stabili ricoperti di vetro, quello squadrato era la sede degli uffici, dove anche lì, seppure con l’autostrada che scorre a un centinaio di metri regna un silenzio totale, nemmeno i passi si sentono in quanto tutto è ricoperto di una morbida moquette, probabilmente soluzione studiata a tavolino per rendere confortevole il luogo di lavoro, come i diversi punti luce, il riscaldamento unificato per tutto l’edificio; questo sfruttava uno scambiatore che permetteva di utilizzare il calore prodotto dalle sale prove dei motori e di distribuirlo in tutta l’azienda, in produzione si lavorava al caldo anche d’inverno, quella era qualità.
Di rimpetto agli uffici, il famoso cilindro, tre stanze di 30 metri di diametro autoportanti realizzate come una ruota di una bicicletta, impossibile non stupirsi di quanto era già all’avanguardia questa struttura che permetteva di avere in un unico spazio tutti i progettisti, disegnatori e ingegneri, in un ambiente ispirante, proiettato verso il mondo esterno.
La visita è conclusa, le emozioni si sommano e non si può nascondere un pò di malinconia per i risvolti della vicenda della Bugatti Automobili, una fabbrica diventata un orgoglio per chi ci lavorava e un simbolo di made in italy che ha affascinato un’intera generazione, ma al contempo ha intimorito il resto dei produttori, andando incontro al suo ingiusto destino, quello di diventare un luogo di pellegrinaggio di appassionati, per rivivere quel sogno, in attesa che qualcosa possa prima o poi smuoversi.
Foto di Emanuele Santini e Massimo Visonà