L’Auto Occidentale rinascerà quando fallire non sarà più una colpa

Forse mai, durante i miei interventi su Autoprove.it, ho fatto ricorso fin dall’inizio a metafore destabilizzanti, ma qui è proprio il caso di fare una eccezione. 

Se mai potessi rinascere in Occidente e mediare con me stesso una professione di Fede cristiana, probabilmente sceglierei di diventare calvinista. Ma si, ammettiamolo: cosa c’è di più coerente e di più ragionevole nel nostro vivere di ogni giorno della filosofia teologia di Calvino

L’uomo fortunato, meritevole nella vita terrena di successo e di benessere è in fondo l’uomo benedetto, è l’animo in pace con il Creatore, è allo stesso tempo l’uomo in armonia con se’ stesso. E dunque, per sillogismo, vale anche il contrario. Un uomo che fallisce è in fondo un uomo in contrasto, in lite con una dimensione armonica tra lui ed il Creato. 

Ed un uomo che fallisce è un uomo che sperimenta non solo su se’ stesso la condizione personale ed individuale del fallimento, ma anche gli effetti della diffidenza, della superstizione, del giudizio e persino della discriminazione economica e sociale.

Sintesi molto semplicistica, mi rendo conto, per rispetto degli spazi del Web. Ma teorema non troppo lontano dalla realtà delle cose. 

In effetti, a pensarci bene, per essere io vissuto oltre mezzo secolo nella parte di mondo più assortita di ispirazione democratica, libera, egualitaria, solidaristica, emancipata, pluralista, e tra l’altro più compassionevole e caritatevole per gli effetti della fede ancora più diffusa in Occidente; per tutto questo, purtuttavia, mi fermo a pensare quale sia la parola forse più rimbalzata alla mia attenzione di decenni.

E’ la parola “Fallimento”: credo che nessuna parola alternativa collezioni messi insieme più sinonimi e condizioni relative non solo al soggetto interessato, ma anche al contesto che lo circonda. Eppure…..

Eppure, Vi giuro dal “basso” dei miei non eccelsi studi classici, che nei testi latini e greci antichi non mi ero mai imbattuto nel concetto simmetrico di fallimento in quella società ed in quella cultura. 

In verità mi trovavo a comprendere più spesso la differenza tra una sconfitta onorevole – perché subìta pur opponendo un animo pugnante fiero, valoroso e senza vigliaccheria – contro una sconfitta disonorevole perché macchiata da modi e sentimenti non nobili. E la società che era espressione dello sconfitto onorevole si stringeva comunque nel dolore e nell’affetto verso il suo soldato. Mentre all’indirizzo del disonorevole non vi era altro che disprezzo ed emarginazione.

Devo dire che il “fallimento” è diventato un termine comune e ridondato alla mia attenzione, sin dalla adolescenza, per effetto di altri “testi sacri”: le riviste di Auto, moto e motorsport: dove, guarda caso, la cultura dominante è stata per decenni quella “sassone” canonica; in sostanza la cultura britannica e statunitense.

Mi asterrò qui in questa sede di esporre, decenni dopo, il mio sincero pensiero verso la cultura, l’influenza e l’incombenza del paradigma americano ha avuto su parte dell’Occidente e dell’Europa. Ma chiamarlo “paradigma” e non “modello” già di per sé fa capire come la penso.

Di certo la storia di stampo “british” (USA e Regno Unito) dal Dopoguerra in tema di disavventure industriali ha inserito nel dibattito e nella concezione del “fallimento” il riferimento della “fiducia”. Fallito è colui che nel mancare un obbiettivo non è più degno della “fiducia” di Investitori e Società perché fallendo mette a repentaglio proiezioni ed esiti futuri che sarebbero dovuti essere raggiunti in caso di continuità aziendale. 

Ecco perché, nell’influenza anglosassone, il fallito è per prima cosa uno che ha “tradito”: aspettative, investimenti, sogni, sforzi dei risparmiatori. Nulla da dire, se non per una differenza: la mancanza totale, come nel colesterolo, di una parte “buona” del fallimento e di una “cattiva”. 

Cioè appunto del primo diritto di un fallito con onore : non essere paragonato a chi l’onore non lo merita. Ma quello che più mi ha sempre colpito, fin da bambino, è la differenza culturale, semantica, emotiva ed etica persino tra la concezione del fallimento da parte di due esponenti leggendari dell’Auto mondiale: Soichiro Honda ed Anselmo Enzo Ferrari.

Il primo, emanazione didascalica dei principi filosofici orientali, seppe dire: “Il successo è al massimo l’uno per cento del lavoro di ciascuno di noi; lavoro che al 99% comprende fallimenti”. E per dirlo lui, che anche nel concetto occidentale rappresenta il successo…

Enzo Ferrari invece rimane storico per una frase lapidaria, la cui differenza contrastante con la prima è fin troppo evidente: “ Non esiste altra possibilità che la vittoria. Chi arriva secondo è solo il primo dei perdenti”.

Ecco in sintesi, espresso da due pilastri storici di due universi opposti, il pensiero sul fallimento inteso anche come sconfitta.

Fallimento:  in Occidente male che emargina, in Oriente ferita da sanare insieme?

Fine anni Venti, Stati Uniti : si narra che un tale Signor Willys, Capo dei Concessionari statunitensi del Marchio inglese Overland ed a sua volta azionista per una piccola quota, avrebbe riunito in gran segreto tutti gli altri Dealer della Nazione, per condividere un piano doloso: ritardare e bloccare tutti insieme i pagamenti alla Casa Mandante, per provocarne il fallimento e portare così lo stesso intraprendente personaggio a rilevarne la proprietà

Leggenda o no, la “scalata” di Willys sulla Overlandappartiene alle pagine di storia “importante” dell’auto: è infatti da questi passaggi che sarebbe nato il mito della Jeep. 

Anni Trenta, Francia : la Citroen è in una situazione finanziaria a tal punto tragica da spingere un Parlamentare socialista a lanciare l’allarme in un discorso parlando – in caso – di una ipotesi di fallimento come della tragedia finanziaria più grave della storia della Repubblica. A quel punto nasce un espediente che farà davvero storia a sé, con la SADIF (Finanziaria a controllo pubblico) che pur di inventarsi i capitali per salvare il “Double Chevron” si inventa un sistema di pegno in cui in sostanza il Governo ipoteca le decine di migliaia di auto invendute come garanzia dei soldi prestati…….Espediente che tuttavia durò molto poco: il continuo salasso legato alla gestione azzardata di Monsieur Citroen porterà alla fine al passaggio di proprietà dal grande Capo Andrè alle mani della Michelin.

Fine anni Quaranta, Italia: la “Cisitalia” di Piero Dusio è stata capace in solo sei anni dalla sua nascita di gettare le basi dell’automobilismo moderno: “D46”, “202”, e una serie di progetti interessanti; ma l’esasperazione degli obbiettivi del grande Capo e le spese folli portano ad una crisi irreversibile che, secondo i maligni, i concorrenti diretti del Marchio avrebbero cavalcato. Arriva a Dusio un Decreto Ingiuntivo per stipendi non pagati e solo grazie alle sue conoscenze al Palazzo di Giustizia, il Patron evita di un soffio il fallimento subendo tuttavia l’Amministrazione controllata. Di fatto il patrimonio tecnico, creativo e simbolico di Cisitalia muore tuttavia con questo passaggio dal quale, per ironia della sorte, deriveranno storie di successo come quelle delle Porsche stradali e delle Abarth.

Fine anni Cinquanta, Baviera (Germania): per l’ennesima volta la BMW rischia la bancarotta, tanto che l’Assemblea degli Azionisti si trova a dover valutare l’ipotesi di acquisizione da parte di Mercedes. DI fronte alla protesta di un gruppo di minoranza, il salvataggio del Marchio dell’elica porterà il nome del potente e facoltoso “mecenate”; curioso che pochi anni dopo la Corte bavarese non avrà alcun dubbio nel veicolare il fallimento di Borgward e l’acquisizione di Glas da parte della stessa BMW.

Fine anni Sessanta, Italia: Maserati rischia un serio default causato dalla situazione passiva pesantissima, a fronte di un valore simbolico ed evocativo del Marchio fortissimo per tutta l’Opinione pubblica, e dunque anche per l’Italia. Nonostante questo nessun Marchio o Ente finanziario pubblico nazionale si muove, e l’unico acquirente che salva il Tridente temporaneamente dal fallimento è la Citroen il cui pacchetto di minoranza tuttavia, ironia della sorte, è appena passato dalla Michelin alla Fiat. Pochi anni dopo saranno le strategie commerciali del Marchio francese a creare il rischio di un nuovo pesante salto in aria.

Fine anni Settanta, Stati Uniti: la Harley Davidson è in bilico sul filo del rasoio del fallimento, generato non solo dalla perdita di appeal sul prodotto interno ma anche dalla micidiale concorrenza delle moto giapponesi. I cui manager, di fronte al rischio di un default del Marchio di Milwakee, agiscono in modo quasi opposto a quanto, plausibilmente, avrebbero fatto Manager Automotive occidentali: mentre questi ultimi avrebbero valutato l’opportunità di seppellire un concorrente scomodo e di dividersi in regime di monopolio il mercato liberato dall’ingombrante protagonista, i Manager giapponesi tennero una riunione “quasi” segreta per definire un protocollo di non concorrenza con la Casa americana; in sostanza i quattro Costruttori giapponesi si impegnarono ad evitare di proporre nel mercato americano – per alcuni anni – modelli e Gamme direttamente concorrenti di H.D. permettendo a questa, in pratica, di riprendere fiato e rilanciarsi. 

I motivi di questa decisione? Un errore metrico e culturale in perfetta buona fede dei manager orientali che, confondendo la cultura e l’indole americana ed occidentale con la propria, temevano che generare il fallimento del Marchio motociclistico simbolo a Stelle e Strisce avrebbe portato il potenziale Cliente americano a rivalse o disaffezione verso i quattro Marchi nipponici. 

Nulla di più lontano dalla realtà, come in altri casi storici del mercato occidentale: proprio su questo aspetto ho deciso di costruire un pensiero ed una riflessione che mi auguro troverete interessante.

Il rapporto della coscienza occidentale con il fallimento nel comparto Automotive è evoluto dal Dopoguerra ad oggi secondo una unica matrice: veder fallire un Marchio costruttore significa da sempre togliere un concorrente dalla panoramica dei “Player” di settore, trasferire a prezzi di saldo a terzi il patrimonio di tecnologia, brevetti, Know How, oppure la forza simbolica ed evocativa di un Marchio; ed infine suddividere a carico della collettività il problema concreto del debito e del salvataggio sociale di maestranze e situazioni territoriali.

Ci sono esempi storici che possono rendere un panorama diverso da quanto descritto? No, se non che la globalizzazione ha trasferito le dinamiche culturali occidentali dentro macrosistemi sociopolitici allargati (l’Unione Europea è il caso più esemplare, ma anche le aree di libero scambio) che hanno volutamente aumentato il rapporto di alienazione tra un popolo e le proprie radici industriali. 

Prendete le crisi industriali nel Vecchio Continente da inizio anni Novanta ad oggi, e confrontatele con quelle fino alla fine degli anni Ottanta. Sembra che le dinamiche e gli effetti siano i medesimi, ma quello che è cambiato è l’approccio sentimentale popolare verso il patrimonio che si veniva a perdere con il fallimento.

Unione Europea, metafora di un Continente che sta perdendo l’identita’ con sé stesso

Ricordate la “crisi” Philips in Olanda? Dopo un boom industriale di metà anni Ottanta, fu anche proprio il nuovo modello comunitario europeo ad amplificare una crisi risolta in parte con 50.000 licenziamenti e con la fine del fallimentare standard V2000 promosso proprio dall’Unione Europea; ma soprattutto la nascita della nuova dimensione comunitaria e l’apertura delle frontiere in Est Europa, in Sudamerica ed Estremo Oriente portò il colosso olandese ad esercitare una sindrome che divenne allo stesso tempo diffusa e letale. 

La delocalizzazione industriale nel nuovo mondo Low Cost periferico. Il concetto di fallimento, che negli anni Ottanta discriminava in Occidente le sole Imprese incapaci di avere un piano industriale degno di fiducia finanziaria ed istituzionale, divenne il concetto di fallimento anni Novanta.

Non sei “Global”? Allora devi fallire. Tutte balle, un modo buono solo a dissociare un territorio ed un popolo dai suoi gioielli storici. I più fessi in Europa siamo stati noi italiani e gli inglesi. 

Entrambi popoli “beoti” drogati di finanza facile, di abbandono della manifattura che faceva tanto secolo precedente, ed in balia già ancora prima che gli anni Novanta finissero di una crisi di identità sconosciuta a Spagna, Francia e Germania; e troppo spesso “scimmiottata” da inutili parvenze e sciorinate patriottistiche intrise – non a caso – di patriottismo e di inutile ricerca del “Made in”, quando già una fetta importante di beni di consumo erano prodotti fuori dall’Europa Unita.

Oggi questa boria del “Made in” appartiene solo ai Distretti produttivi ed ai Paesi quasi totalmente privi della proprietà o del controllo maggioritario delle Imprese presenti sul proprio suolo. 

Ed infatti il termine stesso “Made in” in certi contesti è un termine privo di senso. 

Come fai a definire “Made in Italy” un bene prodotto su licenza? 

Al massimo è di tipo “Built in”; ma “Made” include in modo implicito una estensione di filiera tale da includere nel processo realizzativo anche buona parte dell’Engineering, del Design, degli studi preliminari. 

 

Insomma, come eredità del “globalismo” abbiamo ricavato un totale scollamento tra quello che un tempo era un patrimonio industriale locale e la popolazione dello stesso luogo.

 

Ci sono alcune eccezioni, evidentemente: basta vedere – dentro lo stesso raggruppamento Stellantis – l’approccio popolare e governativo francese sui Marchi della Galassia PSA e quello italico sui Marchi di fonte FCA. 

 

Basta vedere ancora l’approccio che i consumatori tedeschi hanno con il proprio patrimonio industriale e confrontarlo, tanto per fare un esempio, con la neutralità e la quasi rassegnazione con cui modenesi e circostanti vivono in silenzio e in modo passivo la crisi e la minaccia di chiusura che viene lanciata all’indirizzo del proprio “Tempio” industriale Maserati.

 

Su cui i commenti più competenti ed approfonditi oggi sono genericamente svuotati di ogni semantica legata alle origini storiche, ai legami territoriali, al valore simbolico ed emotivo di ogni cittadino con il Marchio di casa.

 

Evidentemente, se la questione “globale” è elevata al rango fondamentale e determinante nella valutazione di un fallimento industriale, e se la componente simbolica ed emotiva dell’appartenenza e dei valori territoriali viene ormai sepolta sotto il segno del mercato senza frontiere, chiaro che il giudizio popolare su un fallimento viene artificialmente circoscritto solo sull’aspetto “esteriore” finanziario e commerciale. 

 

Motivo per il quale oggi fallire viene percepito, dal mercato occidentale, come una incapacità di poter “governare” la conquista della parte di mondo che illusoriamente ci siamo creduti di poter conquistare con perline e sveglie per collo; mentre al contrario sono sempre più le realtà di quelle dimensioni “emergenti” a guidare i giochi, a imporre un comando, a dettare le regole.

Come in un contropiede, sono le regole del modello economico ed industriale emergente a diventare la nuova base della globalizzazione tecnologica. 

 

Tutto questo però al netto di alcune peculiarità che differenziano in modo inesorabile il percorso ed il destino dell’industria emergente da quella vetero occidentale.

 

Avete presente la diatriba tra UE e Cina sui superdazi, comminati dall’Unione verso i prodotti cinesi suscettibili di sostegno alla fonte, cioè di contributi all’Industria da parte del Governo di Pechino? Siamo riusciti, nel vecchio ed ormai rincoglionito Occidente, a far passare come condotta passibile di condanna l’attenzione data dal governo cinese verso i suoi Produttori mediante i contributi pubblici. 

 

Scusate, cosa è da condannare, al contrario? Il fatto che la Cina è libera tuttora di non costruire una dimensione evoluta da “economia di mercato” negando il complesso di diritti, tutele, articolato normativo di garanzia sociale che in Occidente, senza dubbio, è di gran lunga più evoluto e democratico; così facendo, lo squilibrio tra Imprese Occidentali e cinesi non è nella contribuzione che Pechino concede ai suoi Produttori, ma l’onere aggiuntivo che in termini di autorizzazioni, obblighi, vincoli e costi deve sostenere sin da subito una comune impresa occidentale rispetto ad una orientale. 

 

Il classico approccio di complicazione e Know How articolato e multidimensionale tipico della cultura occidentale diventa un problema, un orpello scomodo. 

 

Tutto quello che riguarda la massa deve orientarsi alla semplicità ed al Low Profile, riservando alla nuova segmentazione socioeconomica del Post pandemia il privilegio dei ricchi emergenti di godere di quello che una volta era il “Must” in Occidente: il Valore Aggiunto.

 

Guardate oggi: tutto quello che rappresenta il lusso, il “premium”, il benessere è stato dislocato là dove nascono centinaia di migliaia di nuovi miliardari ogni anno. In questo l’Estremo Oriente, l’Asia, l’India non sono piu’ neppure subordinati all’imprinting occidentale in quanto a simbologia e semantica del lusso. 

 

Oggi al contrario il mondo emergente sta costruendo un modello di lusso e di percezione dello stesso che si differenzia da quello Occidentale. Allo stesso tempo la globalizzazione sta rovesciando la polarità in tema di “fruizione” del patrimonio industriale: l’Estremo Oriente, dopo decenni di recupero, importazione e provenienza occidentale dei simboli del consumerismo sta prendendo la via del consumo del prodotto autoctono, cioè fabbricato in loco; al contrario il mondo occidentale ha drasticamente tagliato il consumo di massa di “nuovo” e si sta focalizzando sul concetto di recupero e salvaguardia dell’esistente. 

Se il must del mondo emergente è quello di cominciare a mandare a regime il sistema produttivo in forma entropica, il futuro del nostro povero Occidente in tema di “prestigio e lusso” potrà provenire solo dal recupero e dalla salvaguardia storica. Okey, ammettiamo che Voi tutti siate d’accordo con questo. E allora cosa c’entra il concetto di fallimento?

 

C’entra: perché finchè la tagliola del “Fallimento disonorevole” sarà un gravame disincentivante sulla testa di giovani e piccoli imprenditori “autoctoni” di cui l’Occidente ha estremo bisogno soprattutto per riprendere e rimettere in moto gli skills e i riferimenti culturali tipici di casa nostra senza per forza catalogarli in chissà quale categoria industriale inarrivabile per la suggestione che tutto quel che ha un profumo di “andato” deve per forza essere pagato a peso d’oro dal mercato. 

E il fallimento c’entra anche perché fino a quando le sorti di una impresa localizzata nel proprio territorio non torneranno ad essere il perno emotivo e percettivo di una comunità, un fallimento continuerà ad essere un fenomeno quasi evangelico di purificazione del mercato globale in stile “savana feroce”, dove solo i più forti e affamati possono sopravvivere. Competitività e risultati sono concetti fondamentali ma non rigidi; per cui in un sistema che ancora abbia a cuore la società, la giustizia e gli equilibri, il mercato deve essere un sistema di riferimento basato anche su fenomeni di tipo sociale, solidaristico, mutualistico

Fenomeni che ci crediate o no sono ad oggi più frequenti nel mondo avanzato piuttosto che nella “culla della civiltà” libera, democratica, cattolica, progressista, civile che è questo Occidente.

Ma soprattutto, oggi più di ieri, in Occidente occorre un miracolo: uno “tsunami” che spazzi via migliaia di Istituzioni e di personaggi politici e governativi che – scorrettamente ed a danno della propria platea elettorale – impongono, alimentano e propagandano un modello culturale ed un approccio che ancora non distingue il “fallimento disonorevole” dalla “sconfitta onorevole” che animava la narrativa e la poetica Classica greca e latina. 

Il fallimento non è mai uguale per tutti. Può essere un mezzo artificioso e scorretto di gestire la propria impresa, ed in questo caso è una colpa. 

Può essere tuttavia anche un esito legato a variabili del tutto estranee alla personalità ed alla condotta dell’Imprenditore, ed allora perché fargliene una colpa? Può anche essere l’effetto di una ricerca di obbiettivi impossibili, di sapore quasi romantico e di altri tempi.

E per fallimenti del genere, si può parlare almeno di sconfitta con onore. Ma il problema è che il nostro decaduto Occidente ormai fa una netta distinzione non tra i diversi tipi di fallimento, ma solo tra le due tipologie opposte di soggetto fallito: quello che “ha amici” e dunque in qualche modo potrà riabilitarsi e ripartire; da quello “senza rete” e dunque lasciato solo al rigore non solo del pregiudizio ma anche della estraneità da una casta o da un ambiente di salvaguardia. 

Insomma, colui privo di “santi in Paradiso”. 

Molti di questi personaggi sono stati condannati non dalla ipotetica incapacità ma dalla personalità antagonista, da uno spiccato odio verso le gerarchie e la subordinazione culturale. Gente così viene vista come un pericolo per l’ordine costituito e per le organizzazioni industriali schematiche e piramidali; ed in quanto pericolosa, una volta sepolta da palate di sabbia od altro viene accuratamente tenuta fuori da un contesto decisionale. 

Si preferisce bollarli come appunto “falliti”. 

Non rieducabili, non meritevoli di riabilitazione e soprattutto causa del loro stesso fallimento. Ne ho visti di uomini così, e francamente nulla mi ha terrorizzato di più del vedere come questi personaggi fuori dagli schemi venissero sempre rimpiazzati da schiere di robotici e deprimenti subordinati nativi, capaci sempre e solo di obbedire e compiacere l’ordine costituito.

Beh, Vi assicuro che di soggetti “falliti” così, magari abili e competenti ma tagliati fuori dal pregiudizio e dalla buona Società, in Occidente siamo pieni. 

E Dio solo sa come e quanto oggi questo tipo di “falliti” sarebbe molto più utile di schiere di perfetti e rampanti “Yes man” dal trascorso impeccabile…

Per questo nell’Automotive come in altri settori industriali la scelta da fare è di natura discriminante e irreversibile: o si continua nell’approccio corrente dei rapporti e dei pregiudizi tra chi ancora cerca di fare Impresa locale in Occidente sapendo che le possibilità di fallimento aumentano di anno inanno contro il muro di gomma di uno status quo che per la maggior parte delle proprie esigenze sfrutta non più il risultato operativo ma la rendita garantita; oppure Società, legislatore e ambiente finanziario e mediatico occidentale decidano per una volta di smentire il proprio socio finanziatore occulto cambiando approccio e paradigma; esercitando così un atto di consapevolezza e forza per evitare che tra pochi anni quest’Occidente si trasformi esclusivamente in un esercito di braccia guidate dalle teste pensanti cresciute in Estremo Oriente ed India

Non c’è più tempo, e tra poco non ci sarà più neppure il futuro. Ma forse, a vederla bene, quello che già non c’è più è proprio l’Occidente.

 

Riccardo Bellumori.

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