“L’Italia è fatta. Ora facciamo gli italiani”.
Esistesse un Conte di Cavour anche nel settore Automotive, alla solenne data di oggi 2025 e in proiezione delle famose Colonne di Ercole del 2035, forse si soffermerebbe a dire: “L’Europa Unita non si è mai fatta, come avremmo potuto fare l’Auto europea?”
Che strano, a pensarci oggi: non esiste più l’auto americana. Ma è esistita: era quella opulenta, roca, cromata, con il possente V8 di grande cubatura.
Era quella l’auto americana per gli americani, che decretarono così flop e fallimenti anche celebri (la prima Corvette, C1, con il povero sei cilindri da 3900 cc, cortesemente respinto in attesa del V8 da almeno cinque litri; la Ford Mustang Mk II voluta da Iacocca con dimensioni e motori troppo “downsized”, ed altri casi).
Non fu la crisi petrolifera a far morire quel simbolo, ma fu un altro simbolo contrapposto: l’odio atavico dei giapponesi (giustissimo peraltro) verso gli Stati Uniti.
L’allora sistema industriale e politico giapponese del primo Dopoguerra decise davvero sottotraccia e senza darne sentore a Mc Arthur di impartire alle Imprese ed alla Società una sola parola: ricostruire per riconquistare con il commercio ed i mercati quel che la Guerra aveva negato al popolo di un Imperatore non più divino per decreto degli americani.
Il Giappone impose sé stesso con l’export diventando in meno di dodici anni il primo Paese estero per commercio ed importazione negli States: dapprima falciatrici, tagliaerba, generatori e minuteria metallica; poi la prima rudimentale elettronica; poi le bici, i ciclomotori, le motoleggere. Ed infine le auto. E l’auto giapponese furono gli americani i primi a scoprirla, a loro spese: piccola, compatta, emozionale perché ben fatta e di prestigio, economica ma soprattutto ottima per qualità e tecnologia.
Quello che gli americani faticavano a garantire su bestioni di cinque metri di lunghezza almeno, era fornito ancora meglio da prodotti giapponesi grandi la metà e con un quinto della cilindrata.
E così gli americani non conobbero la Honda Civic, la Toyota Corolla, la Mazda, la Subaru Leone o le Datsun Silvia, ma conobbero la fisionomia vincente dell’auto secondo i giapponesi.
Un protocollo di qualità, cura di particolari, ricerca, buon gusto ed una irripetibile dose di fascino orientale fusa dentro la voluta ed attentissima “clonazione” dei simboli estetici e tecnici delle più desiderate auto americane.
E quando i Costruttori americani tentarono in modo ridicolo di fare muro, dapprima con le “Pony Cars” e poi con un Downsizingda fine anni Settanta anche proprio per la crisi energetica, i risultati furono drammatici: non era possibile nel confronto diretto di una gamma di auto, compatibile per motori e dimensioni con quella dei giapponesi, fornire livelli paragonabili di qualità costruttiva, espressione tecnologica, cura dei particolari e persino neppure il prestigio che quelle vetturette sapevano mostrare.
Dove si trovava l’auto europea in quel frangente, e come era percepita dagli americani? Beh, differenza dell’auto giapponese, i clienti USA non facevano i conti con l’auto europea, ma più che altro con i costi della provenienza europea dell’auto: a seconda della valuta del paese di origine dell’auto e della svalutazione che la stessa moneta aveva con il Dollaro; a seconda dei diversi contingentamenti commerciali o delle tasse doganali; ed infine a seconda del simbolismo che ogni auto proveniente da uno Stato del Continente europeo sapeva emanare al Cliente USA.
Non esisteva, e forse non è mai stata percepita un’auto “Made in Europe” in America: è sempre esistito il fascino aristocratico e classico delle inglesi, il profilo perfetto e razionale ma di qualità delle tedesche, l’immagine eccentrica delle francesi, l’emozione delle italiane, la perfezione lussuosa delle svedesi.
Nessuna di loro poteva essere il simbolo unitario dell’auto europea. Ma erano prodotti vincenti provenienti dall’Europa, senza che però il consumatore americano li potesse percepire come simbolo di un protocollo continentale unitario.
Neppure l’America, ossessionata dall’Auto JAP, ha mai conosciuto l’Auto Europea
Detto così, mi pare già di ascoltarVi, sono certo che penserete dentro di Voi: “Ma che concetti banali: ovvio che il consumatore americano del tempo scegliesse (tanto per fare esempi distinti) la Saab Turbo Cabriolet, la Volvo 740, l’Alfa Romeo GTV, la BMW Serie 5/7, la Volkswagen Golf ed altro perché avevano un fascino “estero”, una linea diversa dallo schema barocco del Made in USA e soprattutto perché le caratteristiche dinamiche e di guida – questo si – delle auto prodotte in un contesto stradale e territoriale europeo erano sempre, nel rispetto delle specifiche caratteristiche di ogni marchio e di ogni “scuola”, più emozionali ed energiche rispetto alle americane.
Eppure gli americani sapevano bene cosa scegliere e guidare trovandosi di fronte le tedesche, le italiane, le francesi, le (sempre meno) inglesi e le svedesi.
Cinque scuole, ciascuna scuola rappresentata da più di un protocollo industriale e commerciale.
Ciascuna scuola succeduta all’altra in specifiche “ere” dello sviluppo commerciale ed industriale dell’Europa postbellica, in una staffetta silenziosa ma didascalica: l’Automotive inglese guida il mercato europeo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino alla prima parte degli anni Sessanta; la crisi sociaoeconomica delle nazionalizzazioni, la modalità lavativa e teppista dei sindacati ed un protocollo industriale rivolto solo a pochi eletti fanno presto precipitare il modello britannico nella palude.
Arriva il momento dell’automotive italiano e di quello francese, sia per numeri, sia per gamma che per prestigio.
Un periodo che dura in fondo fino alla metà degli anni Ottanta, quando da ben sedici Costruttori nazionali di grande serie degli anni Sessanta la Gran Bretagna della Thatcher decide di chiudere l’era delle nazionalizzazioni e rilancia sul mercato privato i soli sei Marchi industriali residui (Austin, Rover, Jaguar, Bentley/Rolls, Aston Martin). Sei Marchi residui di ben sedici presenti venti anni prima.
Cosa contraddistingueva il modello industriale dell’Automotive inglese? Il prestigio, la cura sartoriale delle rifiniture, degli interni, il pedigree derivante dalla nobile esperienza dei maestri artigiani di signorili carrozze a cavalli (Vanden Plas è l’esempio lampante di questa origine).
Cosa distingueva l’Automotive italiano? Il richiamo delle prestazioni e della sportività, la dinamicità di guida, la creatività stilistica. A questo si aggiunse ben presto la cura artigianale e signorile tipica dell’Automotive inglese.
Il protocollo industriale francese era invece delineato da una capacità eretica e soggettiva, fuori dagli schemi “canonici” di proporre un modello di mobilità assolutamente personalizzato in base alla cultura transalpina.
Ma in mezzo a questi filoni ebbe il tempo di esplodere per circa quindici anni un modello davvero alternativo: quello svedese del lusso “concreto” e di ottima qualità, dell’aerodinamica e della sicurezza attiva e passiva; un “Mix” perfetto tra sportività italiana, lusso inglese, qualità giapponese ed eresia francese.
C’è qualcosa in questi modelli industriali così diversi tra loro che può essere un “trait d’union”in grado di distinguere tra tutti questi protocolli un format distintivo dell’Automotive “Made in Europe”? Provate a cercarlo, ma se non lo trovate non è per colpa della eterogeneità dei Marchi Costruttori.
Perché, ad esempio, la “riconoscibilità” del Made in Japan non è ostacolata dalla concorrenza di sette Brand pronti ad invadere il mondo, ma è esaltata dal mandato che politica e cultura sociale hanno impresso nella mission di tutti questi Costruttori: mostrare la grandezza e la potenza industriale giapponese a tutto il globo terrestre.
Esiste, tra diversi Costruttori e diverse Nazioni partecipanti alla allora C.E.E. un mandato comune?
Nemmeno per sogno. Anzi, ogni Nazione europea vive il confronto con gli altri in maniera conflittuale e beneficiando per il proprio successo della altrui sfortuna. Un mercato conflittuale nel quale i diversi Paesi si autoregolano per quanto attiene a dazi e contingentamenti all’Import, che si regolano secondo il potere di svalutazione competitiva della propria valuta e nel quale, ovviamente, le norme di armonizzazione ed omologazione sono in primis fondamentalmente quelle internazionali UNI-EN-SAE-DIN e così via.
Ed è così che ad esempio negli stessi Stati Uniti la svalutazione del Dollaro (voluta nell’accordo del Plaza del 1985) porta la Corona Svedese a rivalutarsi del 20% sulla valuta americana. Risultato: Volvo e Saab su del 25% nei listini e crollo delle importazioni a tutto vantaggio delle tedesche e delle italiane, mentre nel frattempo la Renault acquisendo la AMC si può dire che praticamente le auto le costruisce direttamente “in House” negli States.
Ma, direte Voi: e se l’Europa non ha un protocollo comune, che dire del filone del “Diesel”? Quella rivoluzione silenziosa per la quale il mondo industriale automotive europeo affrontò la crisi energetica con una architettura della quale siamo stati noi europei, in fondo, i primi “guru” nel panorama mondiale; ma se questo è avvenuto nella sola Europa è semplicemente perché l’America al confronto con noi aveva (ed ha mantenuto) un rapporto sempre marginale con il Gasolio per auto da trasporto privato, mentre il Giappone rispondeva alla crisi con la maggiore miniaturizzazione delle cubature. In parole povere, l’Europa ha fatto del motore a Gasolio per trasporto privato un modello di autoconsumo che altrove nell’Occidente e nell’Oriente dell’epoca non ha mai attecchito.
Però, gli Anni Ottanta finiscono. Ed arriva il primo terremoto, con Piazza Tien an Men e con il Muro di Berlino preso a picconate, ma da questo deriva l’apertura di due mercati di grande prospettiva dove la domanda è assolutamente ingestibile dalla produzione locale, due piazze in cui poter presentare l’Europa Unita non più come cruogiolo di identità e scuole automobilistiche eterogenee ma con un vessillo unitario e ben distinguibile.
Soprattutto dopo la seconda metà degli anni Ottanta (che vede sostanzialmente la “scuola svedese” navigare a vista, la scuola inglese di nuovo esposta alle mareggiate del mercato privato, la scuola italiana costretta a rinunciare al protezionismo ed infine la scuola francese in rapida e poco comprensibile rivoluzione interna) il nuovo modello che dalla caduta dei Blocchi all’esordio della UE di Maastricht prende il sopravvento è quello tedesco: un Paese riunificato che “raddoppia” solo formalmente la potenza industriale e finanziaria ma che in realtà diventa il fulcro dominante ed incombente su tutta l’Unione; un comparto Automotive che da solo viene delegato da Bruxelles per – contemporaneamente – combattere l’insidia giapponese nell’Import continentale, scalare i mercati emergenti in ex URSS ed in Cina ed in qualche modo aprire la strada ad un modello iconico e simbolico di Auto “comunitaria” in Europa.
Il profilo di questa “Auto comunitaria”? Turbodiesel, Premium, Total Quality e prestigio storico e sportivo (guarda caso con l’esplosione del fenomeno Schumacher in F1).
Danni collaterali? Tra il 1992 ed il 1999 il Marco forte consente ai Costruttori tedeschi di colonizzare l’Automotive britannico, sia comprando che cedendo Brand dell’Isola; l’Automotive italiano perde del tutto quel simbolismo che l’aveva reso celebre nel mondo e, seppure con la Lira conveniente per il commercio con l’estero, le quote di mercato e l’identità del “Made in Italy” si diluisce, così come in fondo l’autonomia, l’eccentricità e la eresia tipica dei francesi. Volvo e Saab diventano a loro volta colonie americane per Ford e per GM; ed infine ad esplodere davvero nei confini dell’Unione è la Spagna che, forte di vantaggi fiscali e di costo del lavoro, diventa un Distretto industriale fortissimo come Polonia e poi altri Stati dell’Est Europa.
Di fatto la biodiversità che aveva portato l’industria europea dell’auto ad esportare almeno il 30% del proprio volume produttivo globale finisce, e si impoverisce non solo la gamma ma anche il fascino del prodotto che proviene in senso differito dal Continente esteso.
Tuttavia questo è anche l’effetto di un dispositivo e di un concetto che l’Unione Europea a Bruxelles aveva assunto da subito fin dalla sua fondazione: la decarbonizzazione e il controllo delle emissioni; il problema di tutto questo dispositivo è però in due strumenti che alla lunga contribuiscono a generare la slavina degli ultimi anni.
Da un lato la scansione calendarizzata dei famigerati stepAntiemissione: una Agenda consacrata dove evidentemente la componente “CO” deve essere quella al centro delle politiche riduttive.
Peccato però che con il DieselGate vengano “sbugiardati” circa venti anni di percorso antiemissione: i valori taroccati delle auto Diesel testate dall’EPA per effetto del Software Pirata sono valori ancora ammissibili per la UE in termini di CO effettivamente rilevata ma sono fuori legge negli USA per il valore dei “NoX” e cioè dell’ammoniaca emessa; solo che anche questo valore falsato negli USA rispetto ai NoX rientrerebbe nella norma nella UE solo per effetto di politiche e regole meno stringenti.
Dall’altro versante il pregiudizio mediatico caduto sull’architettura Diesel a causa dell’inchiesta dell’EPA porta l’opinione pubblica (ragionevolmente) a mettere sotto accusa una dimensione di pochi milioni di modelli a Gasolio circolanti in tutto il continente americano; la cosa assurda, qui in Europa, è che la politica e i Mass media non mettono eventualmente sotto accusa la scorrettezza dei singoli Costruttori (cosa buona e giusta, visto che al di là dello sforamento o no dei valori chimici, quello che era stato violato era un valore etico di rapporto e di coscienza commerciale tra Costruttore e Società civile); no, l’assurdo è che Politica e Media Europei dopo Ottobre di dieci anni fa decidono di abbattere tutto il castelletto di expertise, di tecnologia e di qualità generale tuttavia conquistata dal Diesel (questo si, davvero europeo) mettendosi a ruota come caproni in fila dietro alla macchina massmediatica americana nella sacra inquisizione al motore a Gasolio prima ed a tutto il genere endotermico poi.
Così, dal 2015, il mondo assiste alla distruzione reale di qualcosa che ancora non era mai davvero nata; l’Auto europea che in terra Americana era stata messa alla gogna era l’unica potenziale rappresentante a quell’epoca mai ufficialmente dichiarata del modello Automotive comunitario: la Turbodiesel iconica tedesca classicamente Premium, e questo avveniva guarda caso alla vigilia del Salone di Francoforte. Più teorema di così, cos’altro poteva accadere?
E qual’era il mondo che assisteva alla debacle del paradigma europeo “unofficial” dell’Automobile in quel 2015? Era il mondo fatto dal paradigma americano ancora con le ossa rotte dopo il Crack Lehman; era il paradigma giapponese che dopo Fukushima aveva tentato una lentissima ripresa grazie soprattutto alla pioggia di Yen del Presidente Abe; erano però anche due nuovi paradigmi nascenti ed in piena evoluzione.
Il modello “indiano” di Tata e Mahindra; e il modello che cominciava a diventare vincente, quello cinese, dal quale derivava in tutta Europa la chiara visione di una domanda crescente di mobilità elettrica alla quale le industrie europee approcciavano in ordine sparso senza un protocollo unitario da Bruxelles che non fosse solo quello ridicolo e scolastico dell’indurimento delle norme antiemissione, dei divieti, e al massimo della spinta alla diffusione delle colonnine elettriche. Nessun “Green Deal” fatto di norme di settore organiche e proattive, nessun piano di agevolazione alle industrie; solo molta prosopopea per facilitare l’unico impegno che davvero stava a cuore nei tanti amici della Germania in Commissione e Parlamento: lo sviluppo delle sinergie e delle Joint Ventures tra Costruttori tedeschi e cinesi nel Paese del Dragone.
Questo fino al Lockdown, dopo il quale tra Germania e Cina si è rotto un “gentlement Agreement” che ha portato entrambi i sistemi industriali e politici a farsi amabilmente le scarpe.
La Cina chiudendo un numero impressionante di Joint Ventures con i Costruttori tedeschi e tagliando loro progressivamente mercato e sussidi; dalla Germania invece è partita l’idea coloniale verso un continente africano ormai quasi provincia elettiva dell’industria e della finanza cinese.
Guarda caso, se il DieselGate ha provato a smontare da dieci anni un percorso virtuoso del Gasolio europeo iniziato mezzo secolo fa, il post Lockdown ha lentamente messo in un frullatore e disgregato le tante e variegate fisime che Bruxelles ha cominciato a imporre da dopo lo stesso Dieselgate apparendo insensata, frettolosa ed anacronistica.
Ed oggi che il mondo Automotive europeo torna a scoprire il Gasolio, difende una linea pseudo ambientalista con le architetture Hybrid, che il mondo BEV rimane una piccola dimensione nonostante la propaganda favorevole di almeno un quindicennio di politica comunitaria, resta da capire una cosa: a quando un patto di intesa tra Costruttori europei e Bruxelles per costruire le regole e lo Statuto vero e proprio di un’Auto “Made in Europe” in grado di essere allo stesso tempo eco-friendly, popolare, affermata e riconoscibile nel mondo e soprattutto capace di essere migliore laddove americani, giapponesi e cinesi non riescono ad esserlo?
Eh, già: ma dove?
Semplice, nella dimensione Hybrid accompagnata a motori Diesel ed a GAS. Su questo l’Industria europea residuale ed ancora non scomparsa può dire ancora tanto, se Bruxelles fosse occupata nelle sue poltrone da politici più seri e preparati di quelli che – se io fossi un Governo cinese o americano – pagherei per restare al loro posto altri venti anni, per il favore che mi renderebbero…Ma parlo pe la mia percezione, eh? Sia chiaro…
Riccardo Bellumori