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Ducati Paso nata dal mercato ma schiava dei Dogmi?

Proviamo a definire quali sarebbero potuti e dovuti essere gli “Skills” ed i “Goals” della creatura concordata tra i Castiglioni, Massimo Tamburini e Fabio Taglioni (ancora ben presente nella squadra Ducati). Tra i “Goals”:

​-la chicca della Carenatura integrale (la prima al mondo su una moto di grossa cilindrata e prima al fotofinish con la Honda CBR 600 che sarà presentata al Salone di Tokyo un anno dopo la Paso) che avrebbe dovuto regalare alla nuova Ducati una impronta più turistica che corsaiola, visto soprattutto che l’immagine sportiva di Ducati non aveva bisogno di nuovi stimoli e che il settore di Gamma delle turistiche “TL” era ai minimi storici di vendite);

​-La “civilizzazione” del 750 cc Pantah studiato per la “F1” così da proporre al mercato un motore che oltre alla “vena” agonistica (accentuata per le “SL/XL”, per le “Alazzurra” prima serie e per la F1 750 dalla celebre frizione a secco) avrebbe segnato finalmente il traguardo di una versione adatta alle lunghe percorrenze autostradali e professionali: ecco il perché del cilindro posteriore rovesciato di 180° con l’unico Carburatore longitudinale Weber doppio corpo a due condotti di aspirazione (soluzione che distinguerà anni dopo tutte le “ex Pantah” ad iniezione come ad esempio la “Monster”), lo scarico 2-1-2 e soprattutto la frizione a secco su una moto di indole turistica, segno della attitudine e volontà del Gruppo Cagiva di trasmettere comunque un DNA sportivo;

​-un baricentro basso ed una maneggevolezza che tuttora, quaranta anni dopo, fanno davvero della “Paso” una moto “facile” (salvo il problema dell’inerzia e della poca maneggevolezza da fermo, coem in tanti hanno lamentato) capace di portare anche i meno dotati a strusciare le pedane sull’asfalto, ed una comodità che permetta, nonostante le dimensioni ridotte, di portare senza sacrifici o ristrettezze due persone sulla sella.

Tra i “must” del mercato che soprattutto Claudio Castiglioni riesce puntualmente ad anticipare ed azzeccare osservando i trend di evoluzione dei consumi e della comunicazione, ce ne sono alcuni che fanno davvero della Paso una pioniera a sua insaputa di nuovi obbiettivi di mercato.

 

Ad esempio, la “Paso” nei desiderata dei Castiglioni vorrebbe intercettare una categoria di motociclisti che in effetti nascerà davvero quasi quindici anni dopo con il Boom della Honda “Transalp” o “Deauville” e soprattutto della “BMW GS”: è la Categoria degli “Executive”, qualcosa molto più su dei surreali “paninari” fermi ad età da 350 cc. secondo il Codice della Strada

Gli “Executive” che i Castiglioni vorrebbero già ben diffusi ed affermati in quel 1985 sono i Professionisti, i Manager giovani in carriera, gli Agenti di Piazza Affari; insomma un mondo che in effetti c’è ma che è difficile sincronizzare in un unico segmento di vendita moto. 

 

Stesso obbiettivo e stesse speranze, ad esempio, che vorrebbe realizzare la Laverda quando nel 1986 lancia la “RGS 1000 Executive” cioè la versione un po’ Tourer ed un po’ “Ufficio Mobile” del Marchio veneto.

Ma nel caso della “Paso” l’involucro sembra proprio essere un lasciapassare al simbolismo “User-Friendly” che si appalesa “negando” proprio quel protocollo simbolico che legava da sempre il rapporto moto e Centauro: mentre nelle moto “classiche” appaiono in bella vista i particolari e gli elementi della meccanica deputati al controllo ed alla regolazione costanti, qui sulla Paso la “negazione” dei punti di accesso vuole sottolineare il concetto tipicamente “Yuppie” del “Gas&Go”, cioè del mettere benzina ed andare. 

Avete mai fatto caso a questa derivazione particolare della creatura Ducati? 

I “puristi” si scandalizzeranno, ma l’obbiettivo dei Castiglioni non sono “i puristi” ma è la massa potenziale di acquirenti in un mercato che proprio per la simbologia classica delle due ruote si tiene ancora lontano. Per questo, in parte, alcune scelte della architettura motoristica della “Paso” sono complanari con questo protocollo semantico: strumentazione completa sui semimanubri, solidarietà volumetrica di quei particolari (frecce, specchi retrovisori) che sono solitamente separati dal corpo moto. 

Insomma, il genio di Tamburini, un appassionato indubbio delle moto, offre alla massa del pubblico potenziale una mano tesa silenziosa e chiarissima: chi si “limita” ad una auto può perdere ogni paura sulla moto: la “Paso” non a caso viene ridenominata la “Testarossa a due ruote”, potenza insieme ad eleganza e comfort. Non è da tutti, ma non è impossibile per nessuno.

A leggere queste righe, ci sarebbe da fare un plauso alla capacità predittiva dei Castiglioni: ma invece no, perché nella indubbia capacità suddetta si annida sempre e si ingigantisce sempre di più il virus “dogmatico” e troppo didascalico dei due fratelli. 

Ed è qui che si comincia a creare il cortocircuito: quello che nel 1987 porterà il Gruppo Cagiva, ad esempio, a cestinare uno dei progetti di bicilindrico più evoluti e sportivi dell’epoca e nel mondo; parlo del celebre “720 cc” Lambertini da 72 cavalli in condizione “base” che sarebbe costato in termini produttivi la metà di un analogo blocco Ducati e che, sviluppato per una gamma turistica, avrebbe portato di sicuro il target tipico della Moto Morini a fare numeri incredibili; oppure parlo della assurda soggezione – sempre in chiave Moto Morini – al risparmio autolesionista dei costi con il progetto “Morini Dart 350” configurato nell’assurdo programma “low Cost” di proporre una Moto Morini a carenatura integrale sfruttando la Cagiva Freccia 125 con al suo interno il due cilindri da 350cc. Ed altre amenità. Ma torniamo al dettaglio della Ducati Paso.

Mi ricordo la presentazione fisica di questa “Regina”: Marzo1986, Concessionaria Cappelletti a Roma (all’epoca uno dei colossi delle vendite di Cagiva nel Centro Italia e degna concorrente di Samoto e poi Made in Japan in quel periodo d’oro); presentazione della Gamma “Paso” completa nella cilindrata di 350 cc. e di 750 cc.: dalla vetrina che affacciava su Via Appia Nuova, a pochi passi dal Ponte della Ferrovia, una fila davvero lunga di visitatori e curiosi rimandava sulla strada, alle prime ombre della sera, lo scintillio di luci e di musica che proveniva dal Punto vendita. Pur essendo ancora fine Inverno, il clima era caldissimo per l’emozione di un evento che davvero neppure Cappelletti ricordava, pur essendo bersagliata dalle novità dell’altro Marchio rappresentato all’epoca (Suzuki).

E dalle vetrate da fuori la fila dei curiosi che si muove lentissima quella sera intravede la sagoma di qualcosa di mai visto prima: sembra quasi un monolite rosso arancione, quasi un soprammobile bellissimo e gigante, con richiami alla domotica ed alla elettronica Consumer di ultima generazione che fa sembrare da subito la “Paso” un oggetto bellissimo già da fermo, un oggetto da collezione, un totem gigante della conversione totale del mondo allo stile ed all’immagine.

Qualcosa che sa conquistare il senso edonistico che in quegli anni Ottanta la pubblicità stuzzicava all’estremo; al punto che vedendola ancora da oltre le vetrine avresti potuto chiederti se quella sagoma mozzafiato non fosse persino un onirico prototipo “statico” perfetto per uno spot di prodotti di moda, Fashion o glamour (vista l’epoca della Milano dello Stile e da Bere…). 

Sembrava impossibile che quella “tunica” suadente di fiberglass e ABS che rivestiva senza soluzione di continuità le parti meccaniche della “Paso” potesse davvero celare un motore. E che motore, poi!

Alla presa di contatto fisica, anche da ferma, la “Paso” si mostra ancora più “friendly”: incredibile la sua compattezza nello scandire il “peso” della sua cubatura: lunga solo due metri, con un interasse di solo 145 cm; larga 70 cm alle pedane ed agli specchietti ed alta al massimo solo un metro e dieci. Non sembra neppure una piccola cilindrata, ma un prototipo da record di velocità a Bonneville.

Sella bassissima (solo 78 cm), ruote cicciotte da 16” (probabilmente ispirate da un’altra best seller del periodo, la Yamaha XJ 1100) che trasmettono sicurezza e maneggevolezza, semimanubri perfettamente angolati ed assortiti nel disegno complessivo; e su tutto, questa sensazione di “assenza di sporgenze”. Già, è incredibile: la carenatura colorata “esplode” a tal punto da coprire gomme e scarichi. Sembra quasi che la carenatura della Paso funga da elegante tettoia protettiva del Pilota, delle ruote, del cruscotto ben annegato nella palpebra del cupolino in plexiglass “pieno” e non trasparente. Non so come dirVi: fin dal primo impatto la Ducati Paso offre la sensazione di “protezione dinamica” ovvero di “Dinamismo protetto”, fate Voi. 

Di certo il colpo ed il tratto di genio di Massimo Tamburini è stato in parte facilitato da un aspetto congenito in “quella” architettura meccanica Pantah: la sezione trasversale del motore ad “L” dalla larghezza simile ad un “mono” ha permesso a Tamburini di disegnare non solo una carenatura giustamente e comodamente spaziata dalla meccanica ma persino l’innovativo telaio a doppia culla in tubo quadro di acciaio che supera ogni possibile traliccio (quasi tradizionale ormai nella architettura Pantah) e che “prosegue” il trend iniziato dalla serie “Elefant”. 

E su tutto questo, come l’epoca testimonia con i trend stilistici dei diversi Costruttori, la zona frontale e il fanale diventano non solo una parte funzionale della moto ma un simbolo identificativo. Tamburini qui compie il tocco divino: mai una moto prima di allora aveva mostrato in quel fanale anteriore e in quella cornice raggruppata “cupolino/faro/bocca di ingresso aria” un vero e proprio protocollo di presentazione e di comunicazione. 

Chi guida “Paso” si riconosce a distanza e non solo dal suono. E francamente, se in quel periodo il “frontale” di un mezzo di trasporto (qualunque fosse) doveva rappresentare il “Family Feeling” e la Mission di un Marchio, allora il messaggio di “Paso” è chiaro: su di Lei chiunque si distingue e si eleva. Analogamente, la rotazione del cilindro posteriore e la perdita del secondo carburatore “agevola” il disegno dell’area dove si posiziona un bel “Mono” anch’esso prima assoluta su una Stradale di grande serie a marchio Ducati; ancorchè la diversa posizione delle uscite di scarico dalle teste del Pantah aiuta il disegno particolare ed ottimale del “2-1-2” delle tubazioni e terminali.

A fronte della apparente facilità dello schema meccanico, il tempo dimostra una serie di “gap” industriali e di medio-lungo termine che, lamentati dai proprietari e dagli utilizzatori effettivi, pregiudica un poco il successo commerciale pieno della “Ducati Paso”. No, non parlo (come fin troppo è ovvio) della potenza ridotta del motore (per una Sport Tourer dell’epoca) che alla fine risalta più per la ottima struttura della “Paso” che sembra non averne mai abbastanza di cavalli (a differenza di Laverda “RGS” 1000 e di “Moto Guzzi” della serie 1000 nelle quali i circa 70/80 Cavalli sono l’estrema potenza esprimibile nei confronti della ciclistica); e non Vi parlo neppure del prezzo di Listino per il quale legittimamente i più smanettoni si attendevano qualcosa di più paragonabile almeno, solo per fare un esempio limitato, alle “600” cc. delle quattro sorelle giapponesi che tuttavia superano ampiamente gli 80 cavalli. 

No, qui Vi parlo di elementi che a lungo termine nell’uso su strada inibisce il gradimento pieno dei proprietari e che genera un certo pregiudizio sulla qualità progettuale e costruttiva. Alcuni esempi?

Nella serie a carburatore doppio corpo Weber (cioè la serie “350/750” superata dalla successiva “906 i.e.) il carburatore espiantato senza mezzi termini dalla Fiat 127 entra in impazzimento con i galleggianti in caso di “piega e ripiega” sui passi di montagna sputtanando i tassi di benzina nella miscela con l’aria; lo stesso Carburatore, flagellato, nel traffico cittadino o a bassa andatura in estate, dalle onde di calore che salgono dalla “L” dei cilindri e dalla “U” degli scarichi, genera fenomeni di “vaporLock” che rendono il motore irregolare con effetti ancora più pesanti nella guida a due. 

Un altro “flagello” che invece sembrerebbe aver colpito le prime “Paso” per effetto (al contrario) del freddo e dell’unidità era il ristagno di condensa che alla lunga generava malfunzionamenti elettrici oppure fenomeni di ossidazione e di corrosione parziale che intaccava persino il tubo quadro del telaio.

Eppure, a fronte di questi “presunti” problemi (io non posso avvalorarli perché la Paso non l’ho mai avuta ma l’ho guidata nella versione 750 diversi anni fa), quaranta anni fa questa prima “Ducatona” Made in Varese segna uno “Stargate” irreversibile tra sé, il passato di Borgo Panigale ed il futuro delle Sport Tourer: Honda CBR 600/1000, Suzuki GSX 600/750 F, persino la BMW K1 del 1989 sono degne seguaci del filone inventato di sana pianta da Massimo Tamburini, il Michelangelo delle due ruote. 

Certo, nemmeno 10.000 pezzi prodotti della “Paso” nella serie estesa “350/750/906” lungo sette anni di produzione sono numeri omeopatici rispetto alle centinaia di migliaia di unità prodotte dai concorrenti diretti; 

non importa: per quella volta, come per le altre volte segnate dal genio di Tamburini, la Ducati ed il mondo delle due ruote all’italiana si pone sul tetto del mondo. E questo, in ricordo di un anniversario passato da poco (la scomparsa diClaudio Castiglioni nel 17 Agosto del 2011) non può che essere una celebrazione doverosa di una Italia dimenticata. Da allora, anche per colpa del dogmatismo degli stessi fratelli Castiglioni, l’Italia si è sputtanata temporaneamente la Moto Morini e la Garelli; la Ducati fu ceduta, come la Husqvarna. E la rinascita di MV Agusta a mio avviso non riesce ad equlibrare la “tara” della scomparsa di un altro marchio cui milioni di sedicenni come me si erano affezionati. Parlo di Cagiva: pensare che in effetti la “Royal Enfield” sta mietendo successi internazionali usando – forse a sua insaputa – il “protocollo Cagiva” fa un certo effetto…

Riccardo Bellumori

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