Bertone Ramarro: quando Green era il simbolo di bellezza vera

Quando l’ho potuta vedere dal vivo, toccare, accarezzare, e soprattutto “sentire” per la prima volta, mi sono sentito un poco “stupido”. 

Come per pochi altri casi nella mia vita ho pensato al poco valore che talora diamo al tempo: erano passati 41 anni dalla occasione in cui ero venuto a conoscenza per la prima volta del fatto che qualcuno era stato capace di rendere fisico quel sogno, per offrirlo allo sguardo di tutti.

Ho pensato alla somma delle ore (diventate giorni nella mia vita di un uomo di mezzo secolo) che ho perso in Centri Commerciali, in file inutili, in banali occasioni mondane. Oppure in inutili ricorrenze o anniversari. 

Mentre invece, per “Lei” i compleanni passavano lenti, e sempre più drammatici in ragione delle peripezie che il suo “papà” stilistico aveva cominciato a vivere. 

Sarei dovuto passare a trovarla e salutarla tanti anni fa, al compimento dei sui dieci, quindici, venti anni. Avrei ancora fatto in tempo a salutarla dentro casa. E in fondo sapevo dove abitava, là a Grugliasco; si trattava solo di onorare il senso di bellezza e di gratificazione visiva che a quattordici anni mi aveva ispirato guardarla nel servizio fotografico di una rivista.

Perché crescendo ero sempre meno – purtroppo – quell’adolescente che nel 1984 si era ipnotizzato sulle due pagine di Autosprint dell’epoca dove dentro un articolo scritto pieno di informazioni tecniche e di dettagli, campeggiava l’immagine a colori in cui forse “Lei” appariva nel modo migliore dietro ad un filtro fotografico: un “accennato” ¾ vista alta che potesse inquadrare tutta la fiancata. 

In questo tipo di immagine si potevano apprezzare: le proporzioni – introvabili dovunque altrove – tra i volumi della carrozzeria che erano fondamentalmente tre incredibilmente sviluppati in senso verticale: 

il monovolume a cuneo prismatico del corpo centrale che costituiva contemporaneamente il cofano anteriore, la parte mediana dell’abitacolo, e la coda posteriore;

una sorta di “perimetro” di raccordo centrale tra il piano superiore del cuneo prismatico ed il volume finale del padiglione abitacolo;

ed infine quest’ultimo che, nella sua struttura, appare quasi come una unica superficie vetrata trasparente con la parte del tetto propriamente detto che appare quasi “glassato” dalla superficie vetrata unica. Una sorta di “guscio” trasparente e velato dal contrasto cromatico tra il “fumè” dei cristalli ed il nero traslucido del tetto, una torretta di comando essenziale che ti fa capire che non tutti hanno il privilegio di entrare in quell’abitacolo.

Bertone & Chevy: una dinastia di variazioni sul tema, tutte da sogno

E “dentro” quella forma quasi monolitica, alla quale non davanodisturbo neppure le portiere che  – quasi per non rompere l’incantesimo volumetrico perfetto – non si aprono a compasso ma “scorrono” parallele alle rispettive fiancate non volendo “rompere” quella immagine di materia inscindibile e quasi aliena, mi era passata quasi indenne la notizia della presenza di uno dei “cuori” più prestigiosi che nel tempo si potevano desiderare per dare grinta e prestigio alla guida: la meccanica della “Chevrolet Corvette” che per l’occasione era quella della “C4”, cioè imperniata sul V8 Chevy da 5700 cc.

A pensarci bene, poiché “Ramarro” (eccola, la “Lei”) di cognome fa Bertone, mi rendo conto solo ora (che mi sono fatto un poco più intelligente) che la firma di Stile torinese ha nel tempo declinato con i diversi maestri Designer che l’avevano via via abitata, una vera e propria collezione di proposte oniriche bellissime basate sulla meccanica della Chevrolet ed in specifico della Corvette”. 

O meglio, dal cuore “Small Block 327” più iconico.

Dalla “Testudo” del 1963 (in verità legata come base di origine alla Corvair) passando per Gordon Keeble GK-1 dell’anno precedente, arriva la serie “Iso” con “GT 300/340”, “Grifo” e “Lele” (perché, consentitemi, la “A3/C” è più didascalicamente made in Giotto dal lato formale e stilistico), per arrivare a “Lei” e chiudere il quadro d’autore con quella che secondo me è l’ultima scultura in movimento con lo Chevrolet V8 nel cofano davanti: la “Grifo 90” del solo Maestro Marcello Gandini che, pur uscito da Bertone nel 1990  firma una sua visione della bellezza che in fondo non rompe del tutto quel filo magico che lo ha legato per anni a Grugliasco ed a Nuccio.

E a proposito di fili magici, di legami e tradizioni: “Ramarro” è un’opera presidiata dentro Bertone da Marc Deschamps ed Eugenio Pagliano, ma è come se raccogliesse la scia degli incantesimi stilistici di Gandini. 

A livello progettuale, Pagliano è della “Ramarro” anche la parte prettamente “ingegneristica” (rappresentata da un veterano di Grugliasco che, entrato alla Bertone nel 1965 insieme proprio a Marcello Gandini ne è uscito 40 anni dopo) mentre più articolato è il ruolo di Deschamps sia sulla “Ramarro” che nel rapporto con Bertone. 

Deschamps, il genio irrequieto di Bertone, per la Ramarro

Marc Deschamps è un simbolo della flessibilità e capacità di ripartire e di moltiplicare le sfide. Nato in Belgio ormai 81 anni fa, è un personaggio fisiognomicamente simpatico. 

Non ricordo una sua immagine nella quale non sia stato ripreso nel pieno del suo sguardo bonario e sorridente. 

Mi ha sempre ispirato simpatia perché mi sembrava, affettuosamente, la versione “slim” di Robert Opron con cui, pure, ha collaborato. Deschamps è però, oltre questa sua bonarietà, una persona pervicace e volitiva. 

Le prime proposte di collaborazione stilistica inviate alle maggiori Case Auto cadono nel vuoto; solo Paul Bouvot di Peugeot accoglie il giovane, per poi favorirne il passaggio alla Simca: tempo però solo due anni e Chrysler rilevando il Gruppo Rootes proprietario della Simca chiude tutte le sedi progettuali francesi per far lavorare solo quelle britanniche. 

Approda alla Ghia ma il rapporto con l’allora capo De Tomaso è davvero problematico e così nel 1971 matura l’arrivo a Grugliasco

Marc è davvero vulcanico, perché entra a Grugliasco due volte: dal 1971 al 1974, quando ovviamente è parte dello Staff di cui Direttore è proprio Marcello Gandini. 

A metà del 1974 lascia però Nuccio per entrare a collaborare da Chapron, purtroppo senza la giusta valutazione del problema chiave del glorioso Carrozziere attivo a Levallois – Perret, periferia di Parigi: l’arretratezza dei sistemi di lavoro e della mission aziendale.

Famoso per le celeberrime versioni Cabrio delle Citroen “DS” ed “SM”, Henry Chapron della seconda metà degli anni Settanta era un anziano Carrozziere vecchia maniera avvezzo a soddisfare regnanti, Vips, Armatori; ma molto al di fuori delle dinamiche industriali del tempo. 

E, per giunta, spirando nel 1978 lascia alla ex moglie ed alla famiglia la produzione (ma meglio sarebbe dire la collezione artistica) che cerca di tenersi in piedi fino al 1985 per poi chiudere.

Chiaro che anche da Chapron il buon Marc ha bisogno di solo venti mesi per capire come le cose “NON” funzionino; per questo approda alla Ligier che ha bisogno di un Designer davvero onirico per una concept basata sulla “GS Birotor”  Lascia anche Ligier e nel 1976 entra in contatto appunto con Robert Opron, messo alle corde nella “sua” Citroen e volato via, alla nemica di sempre del Double Chevron: la Renault. In meno di due anni e mezzo Marc e Robert formano un Dream Team di eccellenza nel design, e pensate che Deschamps inizia a lavorare sulle forme e sul concetto di quella che davvero tantissimi anni dopo diventerà la “Twingo”.

Ed arriviamo alla fine del 1978:“Strano il mio destino” cantava Giorgia, ma in solo 10 anni Marc Deschamps ha già varcato i cancelli di tre Marchi Costruttori, di un Team di Formula Uno e di ben tre Carrozzerie di stile. Ed ha ancora solo 35 anni quando torna dal 1979 al 1992 in Bertone proprio per sostituire Marcello Gandini.

Nel frattempo gli anni Ottanta sono molto tormentati ed effervescenti, soprattutto per chi come Bertone sia motivato a proporre ai Costruttori non solo la gestione di commesse legate allo studio di Stile, ma anche la parte più articolata e complessa della fase “Industry” con la produzione in piccola serie.

Ramarro Bertone: non una concept fine a se’ stessa, ma un progetto industriale

Ramarro Bertone: non una concept fine a se’ stessa, ma un progetto industriale
Quello che davvero dovrebbe stupire di Ramarro è che rispetto ad altre Saloon Concept del periodo era un progetto integrato “Chiavi in mano” pensato per una produzione in piccola serie con tre bei “Plus”:

Rispettava quasi totalmente la cellula centrale della Corvette C4 nella struttura dello chassis fino agli assi delle ruote anteriori e posteriori; invariato anche l’alloggiamento del motore su cui il profilo del cofano bassissimo è ottenuto con semplicità geniale. È bastato spostare dalla parte frontale a dietro un complesso di accessori che nella Corvette originaria fanno da metaforico “muro”.

Parlo di radiatore, gruppo ventole e persino il compressore dell’aria condizionata: per quest’ultimo si è adottato un albero longitudinale che dall’attacco derivato sul motore frontale trasmette la forza per far girare il compressore; per il radiatore sono stati allungati i tubi di circolazione dell’acqua davanti e dietro, con l’aggiunta di due pompe elettriche per mantenere la velocità di flusso di circolazione sufficiente all’idoneo scambio di calore.

Peraltro una delle due elettropompe è collegata al termostato ed entra in funzione proprio in funzione dell’aumento della temperatura rilevata.

Sempre in relazione alla variazione termica del motore in funzione, è geniale la soluzione per il raffreddamento ed il funzionamento delle ventole poste dietro al radiatore, con funzione “traente” anziché “emittente” di aria.

In sostanza, il radiatore in fase di corsa prende aria dalla feritoia che si trova sulla parte superiore del volume di carrozzeria posteriore che parte dalla base del lunotto. Se vedete bene su quella porzione si trova un riquadro, una sorta di “chiusino”.

Ebbene, è proprio così: quel “chiusino” si muove aprendosi o chiudendosi in perfetta sincronizzazione con termostati e sensori temperatura posti sul circuito di raffreddamento, secondo uno schema che progressivamente aziona anche le elettroventole poste dietro al radiatore e che espellono l’aria calda dalla feritoia posta alla coda della Ramarro.

Altra peculiarità della special in chiave “risparmio”, è che la Ramarro manteneva la massima parte della strumentazione digitale interna che si trova “mimetizzata” dietro una palpebra di plexiglass brunito continua trasversale.

Davvero straordinaria anche una peculiarità che rende la Ramarro persino più adeguata della Corvette C4 in tema di norme anti-intrusione: la parte anteriore della Ramarro risulta persino più “monolitica”e possente di quella della C4, con la assenza delle estese luci integrate posizione + frecce ed una visione di insieme più “piena” rispetto alla Corvette.

In più i fari di profondità della Ramarro quando non sono in funzione sono retrattili.

Ed ecco che, nel 1983, dopo la presentazione ufficiale della Corvette a Marzo arriva alla diretta disponibilità di Nuccio Bertone, che la testa personalmente guidandola per due settimane, un prototipo della “C4” gentilmente donato dallo staff Chevrolet proprio per poterne derivare qualcosa di straordinario. Dunque, arriva a Grugliasco bella impacchettata da Bowling Green nel Kentucky la Vette “C4” con telaio GIIAYO786E5100034; auto che, dopo la serie di test, lo stesso Nuccio trasferisce nella vera “Fort Knox” di Bertone. Si tratta della struttura di “Stile Spa” a Caprie, in Via Roma 1 a trenta chilometri a nord Ovest verso il confine francese).

– mentre i fari di profondità montati in basso si ritraggono nella parte inferiore del paraurti quando non vengono utilizzati)

GIIAYO786E5100034

trenta chilometri a nord-ovest, verso il confine francese) dove Nuccio Bertone aveva creato una nuova “Factory” denominata  “Stile SpA” di cui Presidente era la Signora Ermelinda (detta Lilli) Cortese Bertone. 

Si trattava di un complesso immerso nel verde, voluto da Nuccio per consentire una separazione di attività ed una maggiore riservatezza di esecutività rispetto a Grugliasco. Qui a Caprie la Corvette viene amorevolmente e minuziosamente “violentata” e vivisezionata

Come detto prima, la serie di particolarità introduttive alla nuova Ramarro rispetto alla Corvette è un esempio molto ridotto delle innovazioni e dei colpi di genio che il team guidato da Deschamps e Pagliano concepisce. 

Ma per farVi capire, partirei dalle dimensioni e dai numeri di Ramarro confrontati con quelli di Corvette C4. Sembra incredibile ma Ramarro è più corta di 35 centimetri – con identico passo di 2,45 metri tra i due assi ruote – rispetto a Corvette, ma l’incremento di larghezza della creatura di Bertone è impressionante: più 13 centimetri (che fanno apparire la Ramarro persino più bassa della Chevrolet nonostante le quote in questo caso siano rimaste uguali) in presenza di misura carreggiate non troppo difformi (l’impronta ruote di Ramarro è superiore alla Corvette C4 di sette centimetri davanti e solo di due dietro). Davvero formalmente è un altro mondo.

Il meglio della meccanica Made in USA e la maestria della firma Bertone

Di un altro mondo, pochi sanno, è anche il motore V8 da 5,7 litri, visto che i tecnici Chevrolet inviano a Nuccio un motore che semplicemente non……c’era, all’epoca : curiosi, eh? 

Semplicemente, il motore della Corvette C4 di serie nel 1984 era il “Cross-Fire” Injection con due iniettori controllati elettronicamente al posto dei carburatori della vecchia Camaro Z28 da cui derivava. 

 

Ma nel 1986 sarebbe arrivato sulla C4 la nuova serie L98: sensori di massa d’aria per l’aspirazione, corpi farfallati a doppia aletta ed iniettori doppi gestiti da un sistema computerizzato e posizionati alla base dei collettori di aspirazione e non in alto, proprio per ridurre l’ingombro in altezza dei carter aspirazione e abbassare le quote dei cofani. 

Se non Vi sembra fantascienza che tutto quel che Chevrolet “Factory” avrebbe visto nel 1986 era già presente nel pacco dono della “Ramarro”…Per quanto riguarda la “pelle” della Ramarro (la carrozzeria che integra parti in acciaio con elementi in fibra di vetro e materiali compositi) diciamo che Deschamps ha un certo vantaggio con la base della C4. Il telaio perimetrale, distrattamente visualizzabile come “a longheroni” è invece una sorta di “gabbia d’uccello” fatta da 18 elementi di acciaio opportunamente sagomati e uniti tramite saldatura in ambiente speciale al vero e proprio telaio perimetrale. 

 

Dopodichè, of course, non possono mancare una culla in acciaio per motore e sospensioni anteriori, ed un telaietto ausiliario in alluminio per sospensioni, trasmissione e zona posteriore ad assorbimento di urto. Ed un accenno anche alle straordinarie sospensioni della Corvette C4 che sono riprese dalla Ramarro: come molti sanno la vera rivoluzione è nei fogli di fiberglass e materiali compositi che formano delle specie di balestre supertecnologiche e leggerissime; una menzione anche per le sospensioni posteriori multilink a due braccetti e boccole davvero cesellati dalla fusione in lega.

Insomma una struttura ideale per limare, ridurre, cambiare quote e misure; per spostare componenti e riequilibrare la struttura generale, ma anche per permettere la serie infinita di modifiche necessarie:

-Portiere che in apertura ruotano un minimo verso l’esterno e poi scivolano placidamente verso l’anteriore senza invadere lo spazio anteriore delle ruote rischiando di colpirle se sterzate, anche perché nel caso della Ramarro parliamo di gomme “sperimentali”: alla Bertone cambiano i Goodyear Eagle da 16” con delle speciali “Michelin” a profilo ribassato e 17 pollici montati su cerchi disegnati apposta per la “Ramarro, con prese d’aria speciali per convogliare aria ai freni;

E all’interno una navetta spaziale

All’interno, la Ramarro mostrava tutta la personalità onirica dei suoi creatori: fascia perimetrale di cruscotto che cela tutta la strumentazione digitale della Corvette; una plancia centrale a matrice che mostra in primo piano il comando a manopola del cambio automatico; un sedile a panca che si estende sopra il tunnel della trasmissione con controllo unificato longitudinale dei sedili gestito da una manopola rotante sopra lo stesso tunnel centrale. Rivestimenti bicolore con texture lizard, e forme mai viste prima, con la particolarità per me che l’ho osservata da vicino, della complessità dei pannelli porta interni con una levetta stile F1 per l’apertura delle porte. Curioso, perché è sempre stata la parte “esclusa” dai repertori fotografici, vedere lo spazio portabagagli dietro ai sedili, cui si arriva reclinando ciascuno dei due schienali per raggiungere due vani con serratura che finiscono appunto davanti a radiatore e compressore del clima. In poche parole per caricare non si accede dal baule posteriore di coda ma dalla parte posteriore interna dell’abitacolo. Altra particolarità della Ramarro, che curiosamente è ispirata a Dauphine ed economicissime Fiat a motore posteriore a sbalzo, è la ruota di scorta posta di taglio nella zona anteriore. 

E per chiudere il racconto di questo straordinario walkaround con quella che insieme a sole altre quattro concept mi ha lasciato sbalordito, ricordo la fascia tricromatica perimetrale e longitudinale che denota esteticamente la Ramarro: partendo dall’alto del famoso “cuneo” che si sviluppa alla base del padiglione vetrato, la parte superiore della carrozzeria e dei cofani è in un verde chiarissimo cangiante con il tono dell’oro; le due sezioni longitudinali dei fianchi sono in due tinte progressivamente più scure (ma sempre nel tono del verde) man mano che si digrada verso il basso. E

Vi assicuro che dal vivo fa un effetto straordinario.

Purtroppo, come detto, la “Ramarro” resta un sogno. Dopo la sua presentazione al Salone di Los Angeles 1984 e poi a quello di Ginevra, nel 1985 vince il “Car Design Award”. Secondo me, solo un premio è davvero poco per Lei. Per me, invece, averla potuta coccolare al Salone di Torino 2025 è stato il premio più bello.

Riccardo Bellumori

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