Ci sono secondo me storie “didascaliche” che partono, molto banalmente, dalla morale insita nel termine “Nomen Omen”.
Cioè, est modus in nomen” oserei dire. Insomma, così come il successo ed il destino di tanti eroi della Tv derivano dalla trasformazione del famoso nome dei tanti Cesare Cuticchiain Manuel Fantoni, così secondo me il cognome assonante ed allegorico segna il successo o meno di tantissime avventure automobilistiche che il tempo ci regala.
Prendete la “Chiribiri” o la “Temperino”: nonostante il loro indubbio successo contemporaneo all’alba del Novecento, che percorso mediatico avrebbero avuto nel mercato auto dal secondo Dopoguerra ad oggi?
E se Nikola Tesla, al contrario, si fosse buttato al suo tempo nella realizzazione di auto, sarebbe pervenuto al successo odierno di Mr. Elon?
Ma potete metterla come volete: se un chiromante avesse letto la mano ad un adolescente Peter Monteverdi, anche qualora il giovane non avesse mai ancora deciso del suo futuro, quel chiromante avrebbe detto con sicurezza: “il tuo futuro è costruire auto da sogno”.
Peter nasce in Svizzera nel 1994 dal papà Rosolino che sposata Louise Hurnimann si trasferisce a Basilea per avviare un Garage di autoriparazione.
Peter, il predestinato. Fantasia, coraggio ma tanto affarismo
Una famiglia umile e dignitosa che viene apprezzata ed accolta nella comunità in cui Rosolino si applica alla riparazione di auto (ancora poche), mezzi a due ruote, camion e trattori. E piano piano cresce. Sarebbe automatico e immediato il legame tra l’attività paterna ed il futuro di Peter, ma al contrario non è un eventuale apprendistato in Officina ad avviare il ragazzo nel mondo dell’auto. Ma è la passione per le Corse a spingere la sera e nei weekend di sedicenne ad avviare la realizzazione in proprio di una piccola monoposto fatta in casa con rottami e componenti di Fiat 508 e 1100.Nel frattempo, frequentando un Istituto Tecnico Peter incontra Erst Bertschi che lo perfeziona nella formazione di alta meccanica. Inizia anche una buona esperienza agonistica per Peter che però trova la sua prima occupazione presso il Costruttore Vevey di trattori e quello di camion Adolph Saurer AG ad Arbon.
Nel 1957 Peter sta già per compiere svolte importanti nella sua carriera e vita ma gli affetti lo richiamano ad un brutto risveglio. Suo padre Rosolino muore e al figlio tocca rilevare e riorganizzare l’officina paterna; è il tempo in cui Peter decide di cambiare decisamente strada e si rivolge al mercato delle auto sportive e di lusso, ai cui clienti Peter inizia a proporre il montaggio di Kit sportivi e la personalizzazione con accessori e tinteggiature speciali. Decisamente frenato dalla perplessità della madre, a sua volta contitolare della azienda di famiglia, il giovane intraprendente dopo un periodo davvero duro in cui crolla il pur esiguo cashflow dei trattori e non decolla quello delle auto, riesce con il suo ottimo carattere e la comunicativa ad ottenere convenzioni per l’assistenza di alcuni Marchi inglesi, e inizia gradatamente ad avvicinarsi all’idea di poter vendere prima o poi auto. Ed infatti riuscirà nel tempo ad eccellere nellacompravendita e nei mandati di vendita nel settore del prestigio a quattro ruote. Grazie alla sua capacità dialettica e strategica, alla passione ed alla ottima visione commerciale, gli è facile collezionare nel tempo mandati delle più prestigiose Case Costruttrici.
Ma il suo obbiettivo è la Ferrari di cui ottiene il mandato nel 1957 proprio poco prima della morte del padre. Diventa il più giovane concessionario del Cavallino nella storia ma soprattutto affronta un primo breve periodo come costruttore in proprio (con il suo marchio “MBM”) di piccole monoposto da Pista per Formula Junior.
Alcune linee del destino sembrano davvero associare il buon Peter ad un altro avventuroso imprenditore artigianale dell’Auto sportiva: Henry Reisner di Intermeccanica. Nessuno sa davvero come e con chi sia riuscito Henry a creare quasi dal nulla nel 1961 quelle sue pestifere IMP 500 capaci di mettere in crisi le Abarth.
E nessuno sa davvero con che mezzi e quale ispirazione ed obbiettivo Peter Monteverdi abbia rivolto il suo nuovo Marchio MBM a costruire le sua prime auto stradali (tra il 1960 ed il 1961) basate su carrozzerie o in scatola di montaggio ( vedi la “Tourismo” del 1961 su carrozzeria realizzata e distribuita da Heron Plastics di Greenwich/South East London e da cui aveva preso forma anche la “Diva GT”) oppure su struttura ben più articolata: è il caso della “misteriosa” MBM 1000 SP Osca. Realizzata interamente in alluminio battuto, è una opera talmente ben fatta e ad opera d’arte che non può essere stata realizzata senza l’opera di battilastra e lattonieri esperti. Segno dunque che o la factorydi papà Rosolino era attrezzata di tutto punto oppure che già all’epoca un pur giovanissimo Peter (ancora ventisettenne) aveva già instaurato una ottima rete di professionisti ed artigiani in Svizzera o, più probabile, in Italia. In effetti la motorizzazione OSCA 1100 – non facilissima da reperire sul mercato – potrebbe far pensare a questa ultima ipotesi.
Inizia la strada di Monteverdi nella creazione di sogni a quattro ruote
Quello che è certo, al giovane Peter è facile pensare in grande. Elaborando all’estremo un telaio di una sua Formula Junior, ed approfittando del nuovo regolamento di F1 che consente l’uso di motori da 1500 cc come per la F2, prende un motore Porsche Typ 547/3 – RSK a quattro cilindri sviluppato da Ernst Fruhrmann, iscrive la sua “MBM” FJ Porsche al Gran Premio di Germania al Nurburgring del 1961. Poco prima, aveva preso parte ad una Gara in Salita sul circuito di Solitude dove la FJ si ritira; Peter Monteverdi però il Gran Premio di Germania neppure lo vede: in attesa del Gran Premio del 6 Agosto, allettato dal montepremi e desideroso di fare esperienza per il Ring”, passa al Gran Premio “open” intitolato al Castello di Solitude (Stoccarda) del 23 Luglio 1961, sul circuito di Solitudering. Una sorta di Gara Open dove si erano iscritti fior fiore di campioni e dove Peter partì ultimo e rimase in gara pochi giri. Poi, di nuovo ad Hockenheim, stavolta in una Gara di F2, dove però Peter si infortuna di brutto e lascia per sempre le corse, lanciandosi alla grande nel lavoro della sua prestigiosa Concessionaria a Binningen.
Rappresentante Ferrari: il sogno di Peter per rilanciare la carriera sportiva
Però, pur prosperando con i nuovi mandati di Lancia, Jensen, Bentley-Rolls Royce e BMW, Peter Monteverdi riceve la classica porta in faccia proprio da Enzo Ferrari.
Siamo all’inizio degli anni Sessanta e forse pochi sanno, persino dentro Ferrari, di che crisi epocale e finanziaria sta affrontando il Cavallino Rampante; Enzo in persona è dunque deciso a chiedere ad alcuni Concessionari un nuovo tipo di rapporto commerciale per poter continuare a distribuire in maniera esclusiva le Ferrari: l’acquisto ogni anno di almeno 100 modelli di auto nuove e il loro pagamento in anticipo più un ulteriore impegno economico per il magazzino ricambi.
Ovviamente la risposta di Peter è simmetrica, ed è un bel..:Ciao !! che arriva via Telex alla fine del 1964 Da quel momento il sogno Ferrari di Monteverdi ad Oberwilerstrasse14-20 di Binningen si chiude.
Ed è a questo punto che alla fine del 1965 matura in Monteverdi l’ispirazione di diventare un Costruttore auto, benchè alcune malelingue all’epoca ed anche dopo insinuino che alla base della decisione di Peter vi sia molto di più di un semplice confronto o scontro commerciale. In fondo nella posizione imprenditoriale del manager Svizzero il successo commerciale nella vendita delle Ferrari era perfettamente in linea con le rinnovate richieste della Ferrari, e dunque nonostante l’impegno economico l’appeal delle auto del Cavallino era tale da garantire un ottimi ROI nel medio periodo.
Anzi, la presenza nello Showroom del Cavallino aumentava costantemente l’afflusso e la presenza di visitatori ed acquirenti anche verso gli altri Marchi rappresentati da Monteverdi.
Così, non mancano le malelingue che pensano qualcosa di profondamente diverso avvenuto tra Peter ed Enzo: dopo la fuga dei Dirigenti del 1961/1962, dopo il mistero “ASA” del 1963 e 1964, l’arrivo della pur iconica e leggendaria “GTO” non garantiva Ferrari né dalle “voci” di difficoltà finanziaria sempre più ricorrenti né da una sempre più arrembante concorrenza europea ed americana rappresentata da IsoRivolta, Bizzarrini, Intermeccanica, Jensen, ed altre. E guarda caso, il debutto della nuova “Monteverdi”parte subito dopo la iconica vittoria della Ford GT 40 sulla Ferrari a Le Mans del 1966, con la celebrazione dei V8 americani come simboli rappresentativi anche della migliore sportività in senso europeo. Dunque, possono trovare ragione le “veline” e le malizie sulla reale evidenza che avrebbe portato Peter Monteverdi a tentare la via della costruzione in proprio? Cioè il mare di soldi che il mercato del lusso a quattro ruote richiamava? Autoprove, si sa, lascia spazio a tutte le ipotesi.
Fatto sta che nel 1967 prende corpo la opera prima di Monteverdi Automobili: la “375 S High Speed”: socio d’affari Paul Berger, Designer Pietro Frua, Telaio a geometria tubolare in quadrello di acciaio realizzato in Germania, sospensioni con bracci triangolari davanti e ponte De Dion posteriore, ed il “cameo” del colossale motore V8 Chrysler da 7,2 litri e 375 Cv con cambio automatico Torqueflite. Un corpo vettura tutto sommato snello da 4,62 metri di lunghezza e 1,80 mt. di larghezza ma un peso colossale di 1805 Kg.
Ciononostante le prestazioni dichiarate sono lusinghiere, all’altezza delle Supercar che intende sfidare. Il prototipo “opera prima” della 375 S è firmato da Pietro Frua e viene presentato al Salone di Francoforte del 1967 nello Stand di Auto Becker con una accoglienza davvero calorosa.
Tuttavia qualcosa si incrina nel rapporto tra Frua e Monteverdi: chi parla di divergenze gestionali (Pietro Fruaavrebbe suggerito a Peter di affidare la realizzazione delle 375 alla Carrozzeria Maggiora mentre Monteverdi stava decisamente orientandosi verso Rayton Fissore); chi di meri problemi contabili e di pagamento fatture; e chi infine vede più nascosta una guerra di Copyright tra Frua che realizza il taglio discriminante della “375 S” e tuttavia – effettivamente – una sorta di “rimaneggiamento operato successivamente da Fissore sul taglio del grande Pietro sia sulle versioni “L” che “4” della 375 originaria; ma quello che suggestiona davvero a distanza di anni è la coincidenza stilistica tra la versione ulteriore della “375 S High Speed” nominalmente di Fissore e la “AC 428” di Pietro Frua. E a quanto ne sappiamo e ricordiamo le diverse questioni hanno anche incontrato le scrivanie dei Giudici chiamati evidentemente a chiarire e dirimere questioni di Copyright. Il procedimento realizzativo, come schema fondante, era peraltro abbastanza complicato: il concetto tecnico e l’architettura generale delle Monteverdi fino alle “Safari” e “Sahara” contempla il vecchio benchèonorevole concetto del “Battilastra” applicato alle carrozzerie, dello chassis portante tubolare (e non monoscocca) su cui la “pelle” una volta stampata viene applicata sul telaio completo delle componenti. Un sistema romantico e certo speciale, dove l’opera manuale e la capacità artigianale erano alla base dell’attività di maestranze attive proprio presso i Carrozzieri di maggior storia e prestigio italiani. Su questo nulla da dire. Ma pensare che ancora alla fine degli anni Sessanta vi fosse un movimento continuo e totale di parti costitutive di ogni modello, tale che generalmente:
-Il telaio poteva essere lavorato dalla Factory di Binningen ma più spesso si commissionava a officine specializzate in lavorazione metalli da cui l’opera saldata perveniva alla Monteverdi;
-qui il telaio si assemblava con le componenti meccaniche fondamentali (motore Chrysler, cambio/differenziale/trasmissione, sospensioni, impianti);
-Da qui il complesso telaio/componenti partiva per la carrozzeria destinataria della “pelle” e delle componenti esterne da applicare sullo Chassis;
-infine il “semilavorato” tornava alla base per il montaggio delle sellerie e degli interni curatissimi sempre che questa operazione non fosse stata compiuta dal Carrozziere.
Ebbene, insomma, procedure del genere all’alba di un processo di sempre più rapida industrializzazione e standardizzazione dei processi produttivi non giova certo alla Monteverdi, ma non dal lato della qualità. Ci mancherebbe, le fasi di lavorazione ed i controlli sulle Monteverdi realizzate sono di primo livello. Ma sono di altissimo livello anche i prezzi che investono, nel proseguio della Gamma Monteverdi, la “375/4 (Limousine davvero presidenziale spalla a spalla con Aston Martin Lagonda, Iso Rivolta Fidia e Mercedes “600”), la “375 S High Speed” mentre purtroppo, in una crisi energetica che si affaccia dai primi anni Settanta, i motori supercubati di Chrysler non si sposano ad una efficienza di consumi propriamente detta.
Vero che i mercati elettivi delle Monteverdi sono il Medio Oriente, gli USA e i piani altissimi del Jet Set europeo che si può ancora permettere anche se in pochi fortunati il possesso di auto che bevono come idrovore.
Il problema però per Monteverdi è, prima della crisi energetica, il benchmark con concorrenti di settore e di profilo commerciale comparabile:
-di fronte ad Iso Rivolta, ad Aston Martin ed alla neonata Lamborghini, la Monteverdi soffre di una minore “identità” e personalità generale del “Brand”;
- rispetto alla concorrenza motoristica di Chevrolet con il mitico “Chevy 327” (il preferito senza appello dalla comunità degli automobilisti sportivi) o di Ford con il “Cleveland” le motorizzazioni Chrysler sono decisamente di profilo meno pregiato ed apprezzato (chiedere a Bristol e Jensen);
-questo comporta, senza dover scomodare la concorrenza impossibile verso Ferrari, Maserati, Chevrolet, Jaguar, una certa “sudditanza” elettiva verso Marchi sportivi artigianali anche nati da poco come Bizzarrini o De Tomaso, rispetto ai quali Monteverdi neppure osa l’exploit sportivo
Ecco perché anche l’operazione “Hai 450” (la famosa Berlinetta a motore posteriore centrale) rimane un bel sogno nel cassetto: la mancanza di pedigree sportivo “applicato” e la nomea pregiudiziale del motore Chrysler portano rapidamente Peter a rimanere ancorato seppure con qualche difficoltà al settore del lusso sportivo. In parole povere, fosse sopravvissuta la “Facel Vega”, la Monteverdi avrebbe avuto una concorrenza elettiva con Lei e basta.
Ed ecco anche perché, con la miglior benevolenza, si può ben dire che un pregio formale ed oggettivo di Monteverdi è di essere sopravvissuta, a differenza ad esempio di Iso Rivolta, Bizzarrini ed altri, alla tagliola della crisi petrolifera e socio economica. Ma il prezzo pagato è stato, da dopo il 1975, forse ancora più duro di un fallimento: è stato il rinnegamento di seè stesso da parte dello stesso Peter Monteverdi.
A parte forse una vera e propria fesseria come la mancata produzione del vero e proprio coniglio dal cilindro di Peter, cioè quella straordinaria ed azzeccatissima “2000 GTI” sempre disegnata da Frua nel 1968 e realizzata in conceptunica che sarebbe stata davvero il Jolly vincente in un periodo in cui da inizio anni 70 avrebbe dato filo da torcere a diverse Coupè di taglio “Light”, la piega recessiva del mercato porta prima Monteverdi ad azzeccare una nuova intuizione con la proposta di un corpo vettura della RangeRover a quattro porte invece che a due (con coda polemica e giudiziaria tuttavia quasi comica tra Peter e Land Rover quando quest’ultima dopo la proposta di Monteverdi si trova ad inaugurare una vera e propria linea di 4 porte alla originaria versione a due.
Peter Monteverdi, fu vera gloria??? O la leggenda ha gonfiato troppo la storia?
Prima di continuare, una parentesi che spero condividerete: su Peter Monteverdi si è creata quel filone di curioso e poco sano fideismo che ha già abbracciato altri personaggi storici come Preston Tucker e John De Lorean, per intenderci.
Il concetto che ripeto è sempre lo stesso: va bene l’ammirazione per il Costruttore di Auto, ma alla fine il valore vero dell’opera di Monteverdi si deve valutare nel confronto con competitor del suo tempo.
Con risorse meno importanti di Peter, un genio come Reisnerha creato con Scaglione auto straordinarie come le Intermeccanica Italia ed Indra.
Con risorse ancora inferiori Giotto Bizzarrini da’ vita alla 5300 GT.
Con un supporto industriale di primo piano e capitali probabilmente superiori in disponibilità rispetto a Monteverdi il Commendatore di Desio Renzo Rivolta crea la leggenda delle Iso Rivolta e Lamborghini quella del Toro di Sant’Agata.
Per non parlare di De Tomaso, ma anche dei fratelli Jensen.
Se di fronte a questi esempi le Monteverdi Vi appaiono come bellissime auto degne di rappresentare il loro periodo perlomeno fino a metà anni Settanta, sono d’accordo.
Se però dovessi elencare dove il programma di Peter ha fatto acqua, impiegherei ore.
Di certo la distorsione dimensionale che Peter Monteverdi ha operato sul suo stesso Marchio durante solo quindici anni di vita è stata destabilizzante sia per la cristallizzazione di un “Branding” e di una identità chiarificatrice di una vera e propria Mission: dalla prima fase in cui Monteverdi si è proposta con una Gamma fondamentalmente concorrente di Iso Rivolta, Jensen, Aston Martin fino a (passando a realtà più industriali ed organizzate) Jaguar e Maserati; per poi immettere, nella fase acuta della crisi energetica, un profilo di “allestitore” di rango ma dalla visione un poco controversa: proporre versioni speciali di Range Rover a quattro porte poteva essere già di per sé un aristocratico azzardo, sebbene il filone delle personalizzazioni speciali sulle Range fosse all’epoca ben avviato ma di scarso volume produttivo.
Ma l’evoluzione commerciale della Monteverdi con la serie “Safari” e “Sahara” non fu un limite strategico legato alla immagine dei “Luxury SUV” ancora non diffusi (perché in numero assoluto la “Safari” è stata la Monteverdi più prodotta nella storia del Marchio) ma fu una distorsione dell’immagine pubblica del Brand Monteverdi rispetto al mercato. E non solo perché un “SUV” ante litteram cozzava con la produzione di Gran Turismo ed Ammiraglie classicamente “Luxury”; ma anche perché nella proposizione di “Safari” e “Sahara” (quest’ultima la cosiddetta pezza peggiore del buco, visto che nella offerta commerciale di Monteverdi costituiva la versione “Entry Level” della Safari rispetto a cui proponeva il corpo vettura della popolarissima International Scout praticamente invariato) il Marchio svizzero aveva praticamente trascurato di aggiornare ed implementare la Gamma di sportive e GT “originarie”.
Dunque, direi che il grande errore strategico di Peter Monteverdi fu quello di seguire più un ottimo fiuto commerciale senza però accompagnarlo dalla tutela di quello straordinario intuito creativo che lo aveva inizialmente spinto ad “azzeccare” la originaria Gamma di vetture Monteverdi: questo ha significato limitarsi, alla soglia degli anni Ottanta, a schemi produttivi quasi anacronistici (lavorazioni totalmente a mano, assemblaggio di parti, componenti e semilavorati secondo una catena arzigogolata e dispendiosa); a catene di subfornitura e lavorazioni praticamente monopolistiche ed imprescindibili (vedi ad esempio il ruolo di Rayton Fissore); ha significato snaturare, alla ricerca di soluzioni commerciali di breve respiro e di brevissimo periodo, la natura e l’ispirazione originaria della Gamma di sportive Monteverdi contro una visione sempre più di “Assembler” ed infine “Tuner” del Marchio.
L’esempio? Monteverdi “Sierra” basata sulla “Dodge Aspen” (una media berlina americana che Peter aveva trasformato pesantemente su fronte e retro per farla assomigliare alla parente povera della “375/4”) e “Tiara” (esperimento ancora peggiore di “Tuning” della classicissima ed azzeccata Classe S Mercedes di Bruno Sacco, in specifico la serie W126) come anche il restyling della Ford Granada: tutte proposte che lo stesso Peter – forse per salvare il salvabile – decide di astrarre dalla produzione propriamente Monteverdi per assegnarle ad una nuova e sporadica linea “Monteverdi Design” dalla scarsissima fortuna commerciale. Anche per questo, nonostante l’avventura brevissima in F1 del Team Onyx-Monteverdi degli anni ’90 e il tentativo di rilancio della concept “Hai 650”, la Monteverdi chiude i battenti 40 anni fa, nel 1985.
Dopo alcuni anni ci lascia anche Peter Monteverdi. Un genio controverso e assolutamente unico. Un eroe moderno e crepuscolare del paradiso dell’Auto. Per questo, Autoprove vuole ricordarlo come il più nobile piazzista di sogni a quattro ruote.
Riccardo Bellumori