Lettera alla cornacchia tedesca che si credeva l’Aquila dell’Automotive europeo

Tedeschi per puro caso, Nibelungi per spiritualità, Prussiani per natura, sono il popolo che meno tollero e apprezzo nella storia europea. 

A parte il sommo Wagner, Walter Rohrl (campione di Rally), Toni Mang (Campione di motociclismo), Karin Schubert (campionessa di altre cose) e la BMW 850i del 1988 (opera di Klaus Luthe), della Germania non apprezzo nulla: non bevo birra, non mangio crauti, non indosso calzini bianchi sopra i sandali neri. 

 

Di questo a Voi frega niente, e avete ragione. al massimo potrei ragionevolmente far notare che appartengo a quella generazione che al contrario di quelle successive che amano fare pelo e contropelo alla modalità incivile mostrata dai partigiani a Piazzale Loreto oppure si dilettano a cercare su Telegram le verità storiche sull’Olocausto, ha vissuto fin da piccolo i racconti degli anziani che videro di persona quegli orrori. E tendo a fidarmi del ricordo dei loro racconti, nei quali certo Deutschland Uber Alles non ci fa proprio una degna figura.

Ma Vi interessa sapere che fa, cosa pensa, come vive quella Germania che da 35 anni condiziona e vincola l’andamento e il progresso del Vecchio Continente e dell’Unione Europea.

Per me, che imparai Bismark nell’ora di storia coincidente con l’ultima parte della mattinata scolastica alle Medie e dunque preda di attacchi famelici e di visioni oniriche di bistecche, la Prussia germanica ha sempre ispirato una nazione maledetta, preda di una antica e perniciosa maledizione esoterica; e sono arrivato a ipotizzare che se Martin Lutero si fosse fatto i beati cazzi suoi e non fosse stato scomunicato da Sacra Romana Chiesa, chissa’: forse la storia del popolo teutonico avrebbe avuto un percorso diverso. 

Esoterica e geniale quel tanto che basta per imporre una sua propria visione della tecnologia e dell’industria, la Germania dell’Auto ha l’indubbia prerogativa di essere stata la mamma diretta o complementare di tutte le principali piattaforme motoristiche in uso sulle strade.

Non posso, e non ho la faccia tosta di, riepilogare la storia politica della Germania dopo la prima Guerra mondiale; ma certo posso raccontare la storia motoristica che vede nello spazio delle due guerre l’auto tedesca come una proiezione della grandezza germanica del Reich: Mercedes fortemente aiutata dal Governo e Auto Union partecipata dallo stesso fanno il paio con la perfetta sinergia intercorsa tra Hitler e il boemo Ferdinand Porsche, artefice delle più belle auto del periodo, di decine di altri progetti e della prima vera auto popolare di Stato; quel Maggiolino pagato con apposite marchette apposte mese per mese dal datore di lavoro come controvalore di parte del salario per consentire alla popolazione ariana lavorativa di pervenire ad un’auto continuando a servire lo Stato.

La Germania post bellica e di Norimberga la conosciamo ugualmente bene: la famiglia Porsche viene letteralmente sovvenzionata dalla Cisitalia di Dusio per scarcerare Ferdinand Porsche dalla Francia e dare vita al Marchio Costruttore Porsche nel 1949 in Carinzia.

La Mercedes, come pegno di guerra, perde gli stabilimenti esteri; la BMW viene letteralmente blindata e “spezzattata” dai russi negli stabilimenti ad Est; l’Auto Union è bottino di guerra sovietico e dopo anni di passaggi di mano perviene alla Volkswagen che nel 1948 era nel frattempo rinata ad opera dei militari inglesi di stanza a Berlino. I diversi governi locali, cioè i Laend, favoriscono per via politica alcuni Costruttori su altri: è palese l’appoggio della Baviera alla BMW contro Borgward e Glas, così come il rafforzamento di Volkswagen, DKW, ed altri singoli Costruttori a danno di altri che devono capitolare. 

Il Governo federale chiede un tributo speciale a tutta la popolazione nel 1945, e gli anni della ricostruzione sono tra i più devastanti per la società tedesca; contro una popolazione invalidata, invecchiata (i giovani sono morti come mosche per via della guerra) alcool, droghe casarecce e prostituzione sono l’attività prevalente mentre la famosa commissione italo tedesca a Verona importa migliaia di migranti italiani nelle fabbriche germaniche e la stessa cosa avviene da altri Paesi.

 

La forza lavoro della rinascita industriale tedesca di settanta anni fa è italiana, algerina, turca, greca, persino africana. Ed anche le Industrie auto tedesche dovrebbero dire grazie a diversi Costruttori esteri:

BMW deve dire grazie a Renzo Rivolta ed alla famiglia Laverda se esce da perpetue e cicliche crisi fino a metà anni Sessanta, dopodiche deve dire grazie a Michelotti, Bertone e Gandini se viene percepita come “LA” BMW; NSU, marchio poi entrato in Volkswagen riparte nel Dopoguerra grazie alla Fiat, e così Mercedes deve inchinarsi di fronte al suo Guru stilistico Bruno Sacco se durante e dopo la parentesi di Paul Bracq viene percepita sempre più come “la Stella”.

Mentre dal 1955 (anno del ritiro di Mercedes dalle competizioni dopo la tragedia di Le Mans) la rappresentanza sportiva della Germania nello sport che conta viene svolta ottimamente dalla Porsche, limitatamente dalla BMW e quasi impercettibilmente da Volkswagen per tutto il decennio Sessanta e primi anni ’70, poi il settore piano piano si risveglia.

 

Germania e il Dopoguerra: una rinascita consentita dagli “stranieri”

Resta il fatto che Volkswagen merita la menzione storica per aver percorso caparbiamente la rinascita ed il rilancio di Audi che già da metà anni Settanta è una ottima alternativa Premium a Mercedes e BMW.  All’opposto NSU Prinz e DKW svolgono il loro ruolo operaio fino alla graduale chiusura. 

E poi ci sono Continental, Bosch, e gli altri Suppliers di rango della componentistica: ma se c’è una tappa fondamentale per mettere i puntini di attenzione sul rinascimento tedesco in Europa non vorrei scomodare sempre il 1975 con la Golf di Giugiaro; ma è di certo nell’anno 1982 quando Klaus Luthe dà vita alla nuova Serie 3, Sacco fa nascere la “190”, ed Audi esplode nella sfera mediatica e commerciale con la famosa Audi 100 superaerodinamica vincendo anche il mondiale Rally per Costruttori con la “Quattro”, mentre il Gruppo C Endurance va alla Porsche 956. Parliamo pur sempre di mezza Germania, quella dell’Est patisce un muro che a tanti sembra un supplizio persino eccessivo con il passare del tempo e si prodiga in una produzione automobilistica che ha nelle Trabant e Wartburg a Due Tempi i pilastri industriali. Willi Brandt ed Helmuth Kohl sono a loro volta i pilastri simbolo della politica delle due Germanie e a turno tentano periodici contatti di dialogo e riavvicinamento.

Ma la certificazione della minaccia tedesca nell’automotivein quel periodo fino a metà anni Ottanta arriva proprio dall’America: il Paese del liberalismo e della concorrenza solo sui libri di testo, da tempo si è abituata ad armare i suoi Enti Federali ed a sguinzagliarli come cani da guardia a difesa dell’integrità territoriale degli ormai bolliti Marchi americani pressochè impotenti di fronte alla  concorrenzaestera. 

E se nel 1970 era stato Soichiro Honda in persona a perculareGoverno e Congresso per la estrema e fantasiosa attitudine a modificare le norme antiemissione per blindare il mercato interno dagli Importatori; in quel 1986 l’Audi può fare ben poco contro l’inchiesta federale sul malfunzionamento ipotetico dell’acceleratore elettronico della bellissima Audi 5000: di certo un modello che aveva fatto il Sold out al suo ingresso negli Stati Uniti fu “azzoppato” da una inchiesta dai risvolti e dai contorni ancora poco chiari dopo decenni. 

 

E il resto d’Europa in quel periodo anni Ottanta? L’arrivo di Reagan alla Casa Bianca fa da riflettore ed eccitante per la politica liberista della Signora Thatcher in Gran Bretagna, che delibera la privatizzazione di tutto il baraccone BritishLeyland nazionalizzato con dentro ben 14 Marchi Costruttori. Michael Edwardes, il salvatore della Patria del decennio precedente, esce di scena ma entra prepotentemente nel focus di attenzione la inesorabile progressione del mondo giapponese che insedia le filiali europee dei propri marchi proprio nell’Isola della Regina.

1982, la prima vera scossa dell’Automotive tedesco nel mondo

Siamo ad una fase in cui per pochi anni, grazie soprattutto alla forte influenza economica della Sterlina ed a quella politica dell’Union Jack, lo sport motoristico parla britannico (e un po’ tedesco) mentre Jaguar, Aston Martin, Bentley e Rolls cercano di recuperare il terreno perduto nel mondo del lusso a quattro ruote.

 

Lusso a quattro ruote dove, nel mercato un poco più di massa, Vi ricordo che era esplosa la stella della Svezia: campionessa di importazione in USA con Saab e Volvo, leader culturale in Europa per la New Age degli ABBA e per la netta sensazione di solidità che fornisce al mondo politico per la sua Società modello, fino alla crisi valutaria degli accordi del Plaza ed all’attentato di Olaf Palme.

La Francia era là: Renault viveva dei soldi di Stato (caso praticamente unico nel mondo occidentale in tema automotive) e PSA costruiva lentamente una posizione di leadership soprattutto convogliando la eretica Citroen verso canoni più “Mass Market”; ma fondamentalmente all’Eliseo importava blindare il mercato interno dalla concorrenza estera (per anni la Francia rimane il mercato con minor tasso di penetrazione dell’Import automobilistico) e puntellare la sua presenza in Nord Africa e in Sud America.

A chiudere il cerchio c’è l’Italia. Quella che da inizio anni Settanta fino a quel fatidico 1982 registra la crisi energetica, l’instabilità politica, la lotta studentesca, quella operaia ed il terrorismo, l’iperinflazione, e sacrifica alla causa il fallimento di decine di Marchi sportivi e di lusso. 

Gruppo Fiat (Lancia, Autobianchi, Iveco, Fiat, Ferrari), l’Alfa Romeo dell’IRI, il Gruppo De Tomaso/GEPI (De Tomaso, Maserati, Innocenti, Benelli, Moto Guzzi) e Lamborghini ripartita dopo l’ipotesi di fallimento si associano ancora ad una galassia di costruttori artigianali tra i quali sta prendendo forma il progetto “MicroVett”, la seconda Factory europea per fondazione impegnata nella conversione di mezzi endotermici in elettrici, e la più antica in Italia dal 1986 fino al fallimento del 2013.

 

L’esito politico del rapimento di Ciro Cirillo segna la fine delle Brigate Rosse e l’ascesa al potere dell’Italia “Locomotiva europea” di Bettino Craxi. Da quel momento il Belpaese si afferma nel Fashion, nello Stile, nella componentistica e nei prodotti a quattro e a due ruote che fanno diventare Gruppo Fiat e Gruppo Cagiva i due riferimenti top in Europa.

Peccato che per CAGIVA questo sia solo l’effetto di una azzardata ed accentuata costruzione finanziaria che si sgonfierà poco dopo, e che per Fiat sia soprattutto il frutto di uno shopping favorito politicamente dei concorrenti nazionali: uno ad uno entrano a Corso Marconi l’Alfa Romeo, la Maserati e la Innocenti. Le province deboli definite da Gianni Agnelli diventano feudi di basso rango per anni. E si arriva agli anni Novanta: soprattutto l’Italia dei motori non può più affidarsi né alla svalutazione corsara della Lira, né al protezionismo doganale.

Svezia motoristicamente ormai minoritaria, Gran Bretagna decadente e socialmente instabile, Francia che rimane pur sempre un riferimento economico e politico in Europa, ma soprattutto uno dei due pilastri della ormai prossima Unione Europea che si basa sulla abolizione delle Dogane, la fine dei monopoli e del protezionismo, la forte riduzione della svalutazione competitiva tra Valute per favorire l’Export. Per dirla tutta, è come se un Campione di lotta Greco romana si trovasse in un nuovo sistema di regolamenti che gli impongono i guantoni da Boxe e le mosse di Judo: viene messo in condizione di non combattere più.  Per Italia, Svezia e Gran Bretagna, come detto, è così.

Ed infatti in quegli anni Novanta pesa nel focus europeo la crisi industriale e sociale dell’Italia, zimbello d’Europa con Tangentopoli, con la produzione auto che non regge la concorrenza, con il sistema del motociclo in caduta libera, con la Lira nella tempesta valutaria dello SME. E con la fine di Pentapartito e politica tradizionale, dentro cui riesplode il dramma della mafia. Dell’Union Jack abbiamo detto poco sopra, e tolti i pilastri simbolici di Italia, Svezia e Gran Bretagna dall’iconografia europea dell’Auto, cosa rimaneoltre ad una Francia apparentemente agnostica?

 

Rimane la Germania unita: contemporaneamente socio nazionale più forte della nuova Unione europea, ponte tra l’Europa occidentale e l’ex fronte socialista, ma soprattutto nuovo benchmark finanziario europeo sui mercati valutari internazionali con Marco fortissimo e Bundesbank trainante.E con addosso le ferite calcificate del Dopoguerra, dentro un’Unione che per di più non si sa perché si ammanta del prestigio del Manifesto di Ventotene, teorema spinelliano di chiaro impatto antinazista.

 

1992, Unione Europea, crisi SME, Marco Forte: la Germania vince facile

La prosopopea neowalkiriana che dal 1990 circonda la grande operazione sociale e politica di Helmuth Kohl (ultimo gigante politico della Germania a cui i nani Schroeder e Merkel possono al massimo spicciare casa) porta a irridere la famosa battuta di Andreotti (voglio così tanto bene alla Germania che vorrei sempre vederne due) ed a minimizzare il primo rischio di crack sociale con la esplosione del fenomeno Naziskin nella nuova guerra tra poveri che si crea entro i confini della rinnovata Prussia: perché quella Germania unita, pressochè tale dopo il superamento del territorio prussiano, non aveva mai fatto davvero esperienza con sé stessa in tempo di pace.

Nel frattempo il vento nuovo negli Stati Uniti è quello dei Dem con Bill Clinton, che del centralismo americano e dello sciovinismo di Reagan e Bush Sr. non sa che farsene e prova a proiettare l’immagine di una America legalista, pacifista, pluralista. 

Durerà poco, cioè fino alle bombe aeree sul Kosovo.

Inizia con Clinton una fase di “diluizione” interna del simbolismo dominante ed imperialista degli Stati Uniti in economia ma non in politica estera. 

Dal lato Automotive l’arrivo di Clinton coincide con l’addio definitivo dei Costruttori al simbolismo pachidermico, opulento e ciclopico dell’auto americana. O meglio: tutti gli studi aerodinamici, ergonomici, di riduzione del dispendio energetico che le “Big Three” americane dispensavano per le filiali europee diventano materia industriale anche negli States. Arriva l’elettrico, i biocarburanti a base di mais, il concetto ambientalista.

Dove però la nuova politica di apertura di Clinton verso l’estero porta (anche per effetto della lenta e progressiva strutturazione dell’ormai prossimo WTO) ad aprire le porte di una nuova industrializzazione ai Costruttori europei, in particolare tedeschi. Si è appena conclusa l’avventura di Renault con l’American Motor Corporation e gli USA si risvegliano in quell’inizio anni Novanta con un debito di produttività interna. 

 

Iniziano i nuovi insediamenti per Bosch, Mercedes, BMW; Gruppo Volkswagen mentre in contemporanea si riducono sensibilmente le quote di importazione di Costruttori francesi ed italiani. 

Ma oltre che alla espansione estera, la Germania dell’Automotive fa shopping in Europa grazie al Marco forte: proprio Gran Bretagna ed Italia le mete privilegiate e non solo di Brand auto, con BMW che compra Austin Rover e Rolls Royce, Volkswagen che acquista Bentley, Bugatti, Ducati, e Mercedes che invece “fa da se” dando vita prima al fenomeno MCC Smart e poi al molto temporaneo Gruppo Daimler Chrysler; nello stesso tempo Ford Colonia entra in Jaguar Land Rover e Volvo (anche se ovviamente a supervisionare tutto c’è Detroit) e General Motors compra Saab.

 

Se il Vecchio Continente comincia, un po’ come la carlinga del Barone Rosso, a coprirsi di “X” teutoniche sul territorio, la conseguenza fatale e quasi ineluttabile è che anche la neonata Unione Europea comincia a definire nel modello tedesco il perimetro ideale dell’auto europea con cui presentarsi nel mondo conosciuto (Stati Uniti e Giappone) e quello da scoprire (Cina ed ex Unione Sovietica).

E c’è un problema maggiore all’orizzonte che l’Europa non sa o non vuole vedere: la Germania industriale è “come” il Giappone quanto a qualità e completezza tecnologica (ma è “come” e non può essere altro); ma non riesce nemmeno ad essere “come” l’Italia e la Francia quanto a fashion, patrimonio culturale, specialità agroalimentari, valore artistico. 

 

Germania, terra di zotici dove il Fashion fatto in casa non esiste

E senza questi valori il fatturati dell’Export europeo non ce la fa a superare le frontiere che contano in America, nel Medio Oriente, in Giappone e più tardi in ex Unione Sovietica ed Asia

L’Handicap mediatico ed iconico della Germania rimane infatti lo stesso a distanza di decenni: ottima manifattura, precisione industriale da regime militare ma empatia e fascino pari a zero, nessuna possibilità e forse voglia di colmare il divario. 

 

E così i prodotti manufatturieri tedeschi viaggiano certamente verso i mercati esteri ma più come commoditiesche non come prodotti premium; a parte il settore Auto in cui, tuttavia, la qualifica di Premium Brand è anche il frutto del battage pubblicitario e mediatico quasi ossessivo per battezzare in questo modo la produzione auto tedesca nativa, con il paradosso che le pur ottime Ford ed Opel, costruite in Stabilimenti tedeschi, dovevano rassegnarsi al rango di “generaliste di classe” perché colpevoli di essere mezzo sangue (Caposede a Detroit).

La forzatura mediatica di Bruxelles su una Germania ambasciatrice del “gotha” automobilistico europeo da metà anni Novanta non è il solo problema nel medio termine, cioè alla data di oggi, ma è comunque un problema. Aver intestato alla Germania il titolo rappresentivo per tutto il Continente  quanto a lusso, prestigio e status del settore automobilistico europeo ha lasciato strascichi pesanti sul resto del comparto “Premium” a carico della stessa Unione europea.

Senza contare che la Germania politica non è esattamente un modello universale e perfetto di etica e di legalità: certo, noi italiani manco a parlarne…..Ma quella mano pubblica che lancia palate di Marchi alla Volkswagen nel 1993 per un salvataggio provvidenziale e molto politico; e l’affaire Merkel /BMW e i 700mila Euro di finanziamento alla corrente di Angelona; e lo stesso “falco” Wolfgang Scheublefu Leader della CDU quando alla fine degli anni Novanta scoppiò una inchiesta su presunti fondi di dubbia provenienza diretti e gestiti dall’ex tesoriere Hort Weyrauch. Per poi toccare lo scandalo vociferato di una attività di spionaggio pro Cina da parte degli assistenti dell’Europarlamentare Maximilian Krah ed infine un “Russiagate” legato al Magazine on line “Voice of Europe”.

Tutto questo nel contesto – ripeto – di una volata tirata a favore della Germania dagli scranni di Bruxelles.

E mentre, incredibilmente, i “primi” numeri sull’auto elettrica sono assolutamente italiani (Fiat e Micro Vett), la Germania affina e fa esplodere il suo mantra anni Novanta: il Turbodiesel Common Rail, attraverso un brevetto nato in Italia e ceduto alla Bosch da Marelli e Gruppo Fiat. Non che la Germania non avesse nel frattempo affinato la propria tecnologia (turbocompressori KKK a geometria variabile e sistema iniettore pompa di VW affiancavano la sempre più efficiente e curata produzione classica).

Sia chiaro, infatti: nessuno può mettere in discussione la cura industriale e di assemblaggio degli Stabilimenti tedeschi, il Know How e la ricerca e sviluppo sempre puntuali, il peso degli investimenti pubblici federali alle Aziende tedesche, e persino la cura manifatturiera sui mille particolari costruttivi delle auto made in Germany. La “Qualità totale “ che i Costruttori tedeschi mediano dal modello giapponese del Kai-zen è un dato di fatto assoluto.

 

Ma la domanda che trova, trent’anni dopo, una risposta assolutamente discriminante, è: è stato un bene oppure un male per tutta l’Unione affidarsi ad un’aquila anabolizzata e dopata dagli effetti dell’unificazione su un resto d’Europa infiacchito, e della forza valutaria del Marco rispetto a valute devastate da speculazione ed equilibri internazionali? O non sarebbe stato più strategico, da Bruxelles, avviare in quella metà anni Novanta una politica di ristrutturazione e ripartenza del resto della produzione automobilistica continentale?

 

L’Automotive tedesco decolla ma con riserva, mentre muore il mondo Premium europeo

Le cifre danno ragione alla seconda ipotesi: per effetto del ridimensionamento nazionale di alcuni Costruttori ed a causa della delocalizzazione di Stabilimenti europei in aree del mondo a basso costo del lavoro (Asia, Africa, Sudamerica, ex Est Europa) neppure l’inclusione progressiva nella Unione di Paesi europei del Blocco socialista riesce a risollevare una cavitazione ed un crollo sistematico e continuativo di produzione automobilistica in Europa. Anzi Bruxelles si rende a suo modo protagonista di un paradosso storico ed economico: è l’unica “capitale” di un Continente politico in allargamento (l’Unione) che progressivamente alla crescita di Stati membri e di popolazione attiva riduce drasticamente il volume di auto prodotte dentro casa in un mercato mondiale dove crescono numeri e domanda.

Il problema  è nell’asse privilegiato che aveva portato Bruxelles a favorire Berlino, come detto: va detto che l’automotive italiano e francese avevano le loro “comfort zone” fuori dall’Europa. Gruppo Fiat e Renault inSudamerica, PSA in Nordafrica; ed infatti le controllate di questi Gruppi furono un poco il salvadanaio tecnologico e per alcuni aspetti anche patrimoniale nel decennio anni ’90.

Senza contare che l’indebolimento di pezzi importanti dell’Automotive europeo in Italia e Gran Bretagna ha aperto spazi commerciali alla produzione giapponese di importazione nel momento in cui per ovvi e necessari motivi l’UE decideva un ammorbidimento sui contingentamenti :nel 1993 erano un milione di pezzi, nel 1994 un milione e trecentomila, per poi crescere dentro all’accordo del WTO di fine anni Novanta.

Aver dato forza e rappresentanza ad una Germania endemicamente incapace di essere guida unica in Europa a prescindere dai modi più o meno democratici (basta vedere la storia) con cui si è nel tempo mostrata, è stato un danno per tutta l’Industria europea dell’Automotive soprattutto nella presenza in mercati emergenti come Asia, India, ex URSS.

 

Aver assecondato le crisi isteriche e quel maledetto senso di vendetta che la politica tedesca ha avuto dalla Signora Merkel in poi verso l’umiliazione post bellica ha fatto il paio con una sprovveduta e farlocca voglia neocolonialista ed imperialista che i cosidetti “falchi” un poco tamarri di Berlino hanno esercitato contro mercati e paesi europei in grave  crisi sociale ed economica. 

La Germania ha vinto facile contro chi era già alla frutta. Gran Bretagna, Grecia, Italia, sono stati obbiettivi vergognosamente plagiati dalla prosopopea un poco impotente della politica tedesca; e l’Austerity è stata allo stesso tempo l’evidenza che la Germania non è mai uscita e mai uscirà dalla ossessione frustrante della sonora lezione di Norimberga; e dall’altro l’avvisaglia che quel pastore tedesco perennemente ferito e in collera con il mondo è incapace per costituzione di essere una guida politica di una costruzione equilibrata di Stati senza manifestare inevitabili segni di rancore.

In parole povere la Germania è una perpetua versione LowCost degli Stati Uniti: si riconosce solo nella battaglia dove si impegna a primeggiare purchè contro avversari che lei stessa vuole scegliere; si comporta in modo equivoco e mercantile con i nuovi alleati di turno che poi, regolarmente, finiscono per purgarla (vedi il caso della Cina) e poi finisceregolarmente nella palude delle sue pessime ed un poco allucinate visioni mondialiste. 

Riuscite ad esempio a spiegarVi come possa la Germania essere passata da Nazione più attiva in tema di Joint Ventures e cooperazioni con la Cina, a dichiarare apertamente (come riporta Bloomberg) attraverso ex vertici della Volkswagen (riporto testualmente):

“Sta avvenendo una distruzione sistematica dell’Industria automobilistica tedesca da parte della Cina” ed anche: “la guerra industriale condotta dalla Cina è asimmetrica, poiché trova una Unione Europea frammentata ed ingenua”.

Sarebbe dovuta dunque arrivare una economia con i contro coglioni come la Cina per far fare alla Germania la figura del topolino dentro al forno a Gas…La Cina è, simbolicamente ed economicamente, il contrappasso di una società germanica che riesce sempre, nella storia, a mandarsi all’Inferno da sola. Riflettiamo un attimo sull’ultimo quindicennio di vicende Automotive e, soprattutto, sulla ineluttabile dose di paracula schizofrenia con cui la Germania adotta da sempre storicamente su di sé la autoassoluzione plenaria per causa di forza maggiore.  

Non è la Cina con cui la Germania ha moltiplicato le Joint Ventures applicando la “golden Share” su ogni attività e strategia della UE; ma è la Cina che vuole annientare l’industria tedesca.

 

Non è l’Unione Europea che per almeno tre decenni ha scritto sotto dettatura tedesca le regole economiche e commerciali del Vecchio Continente finendo per azzoppare e pregiudicare tutto quel che non fosse di chiaro colore teutonico: ma è, secondo i manager tedeschi, l’Unione frammentata ed impotente a fare la guerra al gigante cinese. 

 

Solo l’Export tedesco in Cina è crollato. Come mai?

La traduzione, in fraseggio prussiano? Eccolo: “Cara Europa, abbiamo bisogno di tornare alla guida politica del Continente, ed abbiamo bisogno di ritrovare produttività per tornare ad essere la Guardia Giurata d’Europa.” Bene, beato chi ci casca ancora. Io no.

 

Come mai l’agroalimentare italiano vive ancora un Boom costante, in Cina? Come mai l’industria del profumo continua a crescere in Cina ed Asia? Come mai solo l’Export tedesco nel mondo crolla, e crolla soprattutto in Cina ?

Eccolo qua il contrappasso dantesco: l’inesistenza della Germania come “Country Brand”. Essere solo, meccanicamente e banalmente, capaci di fare benissimo alcune cose senza accendere la fantasia. L’Aquila tedesca insomma vista un po’ come una cornacchia: fastidiosa, pettegola, acida e minacciosa con i piccoli, accondiscendente con chi è più interessante per fare affari, tendenzialmente poco accattivante. Insomma, a dispetto di quel che si dice dell’Italia, la Germania del nuovo Millennio è lo Stato Nazione meno Nazione di tutte le altre nazioni europee. Distrutta e smembrata dai vincenti di due Guerre mondiali, non ha fatto in tempo a ridenominarsi Germania superando i vecchi confini prussiani da essere stata di nuovo divisa in due dai blocchi in contrapposizione. Non ha neppure fatto in tempo, una volta ricostruita industrialmente con la forza lavoro degli immigrati, da aver tentato la riunificazione. 

E così una mezza Germania occidentale che stava appena in quel momento facendo conoscenza con sé stessa si è dovuta apparentare con l’altra metà che non aveva mai conosciuto. A volte c’è da chiedersi chi sia stato a capo di questa sorta di esperimento sociologico alla Dottor Mengele, sul serio. Difficile recriminare alla Germania il retaggio storico della ferita atavica e della rivalsa, nella ossessione dell’Austerithye della punizione esemplare nei confronti della Grecia nel 2013. 

Così come la simbologia dell’Automotive tedesco come portabandiera dell’Industria europea avrà fatto sentire a molti a Berlino il ricordo suggestivo dell’epopea prebellica, con Auto Union e Mercedes a dominare le scene. Ma questo non è il momento dei ricordi, ma della programmazione: volenti o nolenti, quando la Germania starnutisce si è ormai posta nella condizione per la quale è tutta l’Europa a prendere il raffreddore.

Il problema è che dietro tutto il vittimismo tedesco contro i cinesi c’è la realizzazione di una consapevolezza: la Germania ha capito di non poter mettere le mani sul mercato cinese; ed allora, da alcuni anni, si sta divertendo a rompere le uova nel paniere alla Cina nel mercato in cui la Cina aveva puntato di più negli ultimi anni: il Sud Africa. Abbiamo redatto e pubblicato diversi pezzi che evidenziano bene come i Costruttori tedeschi abbiano chiuso e ridimensionato siti produttivi a casa loro per aprire in Africa. Forse, vista l’interazione tra UE e Germania negli obbiettivi di convergenza nel mercato africano, la Cina magari si è fatta saltare la mosca al naso??

 

Ma se l’economia tedesca entrasse in cavitazione, quanto ne risentirebbe l’Europa? Con la Germania in recessione nel 2023 e nel 2024 l’effetto di stagnazione sul Pil dell’Unione si è fatto sentire. Con 84 milioni di persone ed una industria di trasformazione di semilavorati che provengono da altri Paesi europei l’economia tedesca in crisi pesa persino su qualche decimale di Pil sulla crescita italiana. Possibile che la crisi tedesca sia determinata dal crollo dei trends della sua industria in Cina? Se si, la colpa è proprio della Germania. L’ossessione stessa dell’Austerithy – secondo un articolo del Financial Times del 2022 – svelerebbe l’arcano per il quale una frenata della produttività e del potere di acquisto generalizzato in Europa avrebbe potenziato la leva di export tedesco verso la Cina; a dire il vero la barricata contro la Grecia ha anche permesso alla Cina di fare un discreto shopping (pare per quasi 250 miliardi di Euro) per “coprire” di investimenti cinesi il territorio ed i porti ellenici. Tante cose che suonano male in questo malcelato rancore dei tedeschi verso l’ex blocco alleato occidentale di Norimberga. Sospetti che nella ossessione e nella paranoia legalista e giustizialista che mostrava da parte del cosidetto “falco” Scheuble si nascondesse una sana voglia di farsi bei cazzi propri a livello economico. La Germania che apre la guerra a distanza con l’America sul presunto “Telephone-Gate” e che viene ripagata pan per focaccia dal DieselGate solo pochi anni dopo. Quante coincidenze.

 

Di certo la Germania “Chiagn’ e ‘ fott’” sa bene di essere “Too big to fail” e conosce il peso specifico della sua economia nel trend europeo. E questo è forse la cosa che mi fa desiderare che la Germania, per poter tornare ad essere amata più in generale, debba tornare…..”Due”.

Ma a parte questo, ammettiamo che si debba operare un “Soccorso Rosso” rivolto al benessere della Germania. Ok, ma da dove ripartire? La classe politica e la gestione governativa dell’attuale Germania è in pieno caos, effetto di un disordine sociale che avrebbe già spinto mio nonno a tormare in montagna nel suo vecchio rifugio partigiano, fosse stato ancora in vita.

E come operare su Brand che, onestamente, sono stati a tal punto “pompati” e gonfiati mediaticamente per un trentennio da risultare oggi quasi campane vuote dal rintocco “ottuso”?

Quanto valgono oggi i Brand Premium tedeschi?

Secondo me molto poco, ma come detto io conto ugualmente poco nel contesto del dibattito. Ma quanto valgono i Brand tedeschi? Non spetta a me contabilizzare lo stato patrimoniale e l’esposizione in Borsa. A me spetta fare la cosa giusta; analizzare le cose con criterio e buon senso. Cosa rara al giorno d’oggi. La faccio semplice: ricordate l’effetto Tesla? In un sistema definito e con una dimensione “N” di protagonisti Automotive di riferimento, i Brand tedeschi contrapposti a quelli francesi ed italiani conquistavano un peso ed un valore; confrontati con quelli giapponesi ne assumevano un altro; e su scala occidentale ne assumevano ancora uno diverso a confronto anche con i Marchi americani. Poi però tra quei Marchi americani si delineò quello di Tesla, Ed è bastato un crack Lehman ed un nuovo paradigma sull’ecomobilità per spostare i rapporti parametrici. La Commissione Europea con la politica “Carbon Zero”, il DieselGate e il confronto con gli altri mercati internazionali hanno variato ancora di più i rapporti in gioco. L’arrivo della Cina come player pronto a giocare contro l’Europa e la Germania la guerra commerciale sull’Auto di quanto farà variare nuovamente i rapporti di valori in ballo?  Vi lascio ogni risposta.

Un asse franco tedesco sull’Auto?

I rapporti dimensionali in gioco tra di loro portano anche ad una domanda pesante: puo’ essere possibile nel Risiko prossimo venturo del mercato auto una o più acquisizioni di Brand, Marchi o Gruppi Costruttori tedeschi da parte di operatori esteri? Se il rischio c’è, l’unica soluzione dovrebbe essere una gigantesca “Consorziazione” di Marchi Costruttori e Gruppi sotto una unica dimensione associativa. Per aumentare la massa critica, per avviare il famigerato progetto di Blockchain continentale in tema di Auto, e per ridare equilibrio a Paesi e Marchi “vicini di casa” della ormai ex Aquila tedesca, ormai sempre più cornacchia. Una sorta di “ATI” – Associazione Temporanera di Imprese” per la proposizione del “modello di auto BEV all’europea”. 

Ma questa idea è talmente buona che Bruxelles non la prenderà mai in esame.

Riccardo Bellumori

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