Poteva essere la fine di tutto. Mezzo secolo fa Peugeot acquisisce Citroen dalla Michelin, siamo al Primo Giugno del 1974. Due anni dopo, con l’acquisizione del 90% del capitale del double Chevron nasce PSA.
Ma tre anni prima di quel 1974 la Citroen completa l’acquisizione di una primadonna vera del mondo Auto, la Maserati; si completa così un percorso quasi fortuito attraverso il quale Adolfo Orsi aveva iniziato il rapporto con il Marchio francese proponendogli nel 1967 il progetto di un motore per la nascitura Ammiraglia sotto la Tour Eiffel.
Se tuttavia Citroen ha apportato capitali e supporto industriale ad una conduzione familiare degli Orsi che con Omar e il padre Adolfo (dinastia di imprenditori dell’acciaio) cominciava ad essere davvero “bucata” da scarsa visione prospettica di mercato e dall’aumento indiscriminato dei costi, dal lato della strategia industriale e commerciale la gestione Citroen in solo sette anni – da quel primo 60% di controllo azionario del 1967 – si trasforma in una palude in cui Maserati rischia davvero il default;
Il Tridente perde nel 1974 cinque milioni di Dollari dell’epoca(una cifra superiore al Capitale Sociale effettivamente versato) e nel 1975 (esattamente il 22 Maggio) con un Consiglio di Amministrazione straordinario la nuova proprietà Peugeot mette Maserati in amministrazione controllata.
Notizia bomba che rimbalza in ogni media di settore, e persino il New York Times apre l’edizione del giorno dopo con un servizio in prima pagina, dato il rango ed il successo che in America aveva Maserati.
Purtroppo la crisi che morde di più è quella socioeconomica seguita a quella energetica in Europa, e quello Stabilimento di Modena che dal cosiddetto “Ponte degli innamorati” i più fortunati ancora possono scorgere in uno spazio all’aperto interno – finisce per produrre quindici auto a settimana, raschiando il barile del “Break Even Point” e portando al salvataggio del Tridente che nelle sue mosse ha il sapore del racconto d’autore: è infatti Peugeot che, messa in liquidazione la Maserati per il valore di quattro miliardi di Lire, ne finanzia quasi la metà ad Alejandro De Tomaso purchè rilevi il Tridente e tolga l’imbarazzo di un possibile fallimento e chiusura di una storia automobilistica unica.
In questo contesto i veri eroi metropolitani della vicenda sono gli operai che si oppongono alla chiusura dell’impianto. Ma quando De Tomaso e GEPI compiono l’Impresa, la Maserati torna italiana e modenese.
Mezzo secolo fa, esattamente, inizia una nuova storia con GEPI azionista al 70% e De Tomaso al 30% ma titolare delle strategie di rinascita e gestione. E da questo punto di vista, dobbiamo ammettere che persona migliore per le missioni impossibili come Alejandro De Tomaso non se ne sarebbero potute trovare in quel momento.
Rilanciare la Maserati superando la penombra cresciuta nel periodo di gestione francese e tuttavia cercando di lavorare con Budget risicati (perché è vero che GEPI era un finanziaria pubblica, ma è anche vero che De Tomaso la impegnava già con Benelli, Moto Guzzi ed Innocenti) ma mostrando da subito al mercato che il Tridente non avrebbe snaturato le sue radici: eraquesta la mission di De Tomaso. Riuscire a ripartire con – davvero – quattro spicci fu invece la vera opera d’arte di Don Alejandro.
All’affaccio della seconda metà degli anni Settanta la Maserati che l’argentino rileva ha praticamente gettato nel cestino la seconda serie della sua Ammiraglia iconica, la già leggendaria “Quattroporte”; e deve superare anche, il prima possibile, la serie “Merak” e “Bora” abbastanza pleonastiche ed ingestibili nella fase ancora calda della crisi energetica e della montante protesta sociale ed operaia.
Quello che rimane da giocare alla nuova gestione è la simbologia ancora forte del Marchio e della sua storia sportiva e commerciale, ed è la collezione degli straordinari “V8” Alfieri.
Che nel frattempo ha presentato le sue dimissioni dalla Maserati, probabilmente non incline e poco convinto della linea gestionale o della personalità di De Tomaso; l’uscita di un perfezionista e geniale tecnico come Giulio Alfieri, tuttavia, peserà nel proseguiodella nuova vita del Tridente di Modena.
Ma nel frattempo c’è l’oggi, o meglio c’è da ricreare l’artiglieria giusta per rilanciare il marchio sul mercato e proporre qualcosa che riporti alla luce il pedigree sportivo ma signorile con cui si era aperto il decennio precedente con la 5000 GT, la “Mistral”, e la Quattroporte.
Come questo sia riuscito – in modalità “Start Up” – con l’ausilio di qualcosa che era addirittura antitetico al profilo appena detto, rimane relegato nella magia sporadica e spesso discontinua di De Tomaso che tuttavia, quando era davvero ispirato, non temeva confronti con i migliori “Guru” dell’Automotive.
La “ripartenza” di Maserati “nuova gestione” avviene infatti attraverso la rielaborazione in chiave Tridente di una straordinaria Gran Turismo berlina tre volumi lanciata da De Tomaso tre anni prima: la “Longchamp”. E nessun altro meglio del genio argentino avrebbe avuto una intuizione del genere.
Dopo la straripante “Pantera” il Marchio omonimo dell’Alejandro di Canalgrande aveva lanciato una generosa e potente “Ammiraglia” sulla falsariga (o meglio sul Market target) della “Iso S4-Fidia” che era nata effettivamente nel periodo di esperienza di Giorgetto Giugiaro alla Ghia così come la “Deauville” era nata nel periodo della Ghia gestita temporaneamente da De Tomaso su mandato fiduciario della Ford che ne era diventata proprietaria.
Maserati riparte da Zero. Proprio il terreno ideale per il genio di De Tomaso
Ovviamente motorizzata Ford Cleveland V8, la nuova berlina di rappresentanza modenese costituiva all’opposto della Pantera il cosiddetto “Omega” contrapposto appunto alla “Alfa” della berlinetta GT a motore posteriore centrale presentata nel 1970. E mentre “Pantera” stuzzicava i sensi del canonico Cliente Ferrari, Lamborghini, Porsche; la “Deauville” suppliva temporaneamente alla assenza proprio della “Quattroporte” della quale ricalcava il ponte tra lusso e sportività, intercettando i desiderata però più dei “cumenda” che degli sportivi.
Mancava un “punto di mezzo” che raccogliesse quel pubblico che pur disponibile a sacrificare un po’ di lusso, comfort e spazio abitabile ambiva però ad una tre volumi classica senza esporsi dunque al segmento delle berlinette a motore posteriore. E così nel 1973 arriva “Longchamp”, fortemente ispirata dal prototipo “Lancia Marica” della Ghia dentro cui si esaltava il tratto inconfondibile di Tom Ttjaarda, il genio americano trapiantato a Torino.
A vederla ancora oggi, Longchamp è una bellissima forma di Coupè “muscle car” probabilmente molto più didascalica ed influente per il suo periodo rispetto ai volumi di produzione che ha effettivamente raggiunto; questo perché ha rappresentato l’unica vera alternativa “latina” dell’epoca, direttamente concorrente con mostri sacri come Mercedes “SL” oppure AstonMartin “V8”.
E’ dunque la “Longchamp” a fungere da incubatore per la nuova Maserati del corso De Tomaso, ma sarebbe riduttivo raccontare questo antefatto solo come effetto del budget quasi inesistente senza chiamare in causa il concetto discriminante cui Don Alejandro puntava: creare un “family feeling” tra Gamma De Tomaso e Maserati per riuscire un giorno, auspicabilmente, a definire piattaforme tecnologiche comuni. Sogno effettivamente interrotto, come sappiamo, alla fine degli anni Ottanta.
Per questo, nella creazione del nuovo corso Maserati, pur disponendo di uno staff interno alla De Tomaso eccezionale dal lato del Design (ricordiamo che a metà anni Settanta era arrivata a Modena anche Giulia Moselli), l’indole iperbolica del Boss Alejandro si sublima cercando la perfetta “fusion” tra il domani di De Tomaso e il più prestigioso “ieri” di Maserati: Tom Ttjaardasimbolicamente fornisce la “materia prima” per la nuova Maserati (la Longchamp) ma i colpi di cesello personalizzatore deriveranno da un altro grande Designer che aveva marchiato opere didascaliche per il Tridente: Pietro Frua.
Già decisamente maturo, a 63 anni il carrozziere e stilista prende in carico una delle sue ultime sfide, perché solo sei anni dopo culminerà il suo calvario di un male incurabile: ma era comunque il Pietro Frua che nel 1962 aveva preso con coraggio il gravame della Maserati 5000 GT che nel 1962 ipnotizzò i Saloni di Parigi e Ginevra. Per poi proseguire con il battezzare la eterna “Quattroporte” prima Serie, la versione speciale per l’Aga Khan e la Mistral. Kyalami fu l’ultima firma di Frua per Maserati, ma forse fu una delle più impegnative: creare da zero era difficile per molti, rivedere e ricreare partendo dai vincoli di una forma preesistente era missione impossibile per pochissimi.
Pietro Frua. Il suo primo atto per De Tomaso, il suo ultimo per Maserati
Ma nella chiamata di Pietro Frua da parte di Alejandro De Tomaso forse c’era, magari inconsapevolente, un appuntamento mancato con la storia. Anzi, due: era il 1968 quando al Salone di Ginevra appare la Maserati “Mexico”. Si, già immagino le tirate di orecchio: la “Mexico” arriva come prototipo nel 1965 carrozzato da Vignale su base Maserati 5000 GT, e l’anno dopo debutta ufficialmente. Ma sessanta anni dopo sono tutti propensi a conferire alla versione di Pietro Frua il riconoscimento “più bella Mexico di sempre”, perché la versione di Frua è davvero più elegante e ricercata. Nulla si è mai saputo sulla genesi di quella mini serie di Mexico: fu una commessa speciale di clienti facoltosi al piccolo artigiano?
Fu una risposta “ostile” di Frua alla serie approvata da Maserati a firma Vignale? O fu semplicemente la opzione che in origine Maserati potrebbe aver commissionato anche a Frua in un confronto “pre-produzione” per poi preferire la versione di Vignale? Davvero la Mexico Frua è un progetto su cui esiste da sempre un silenzio ed un mistero incredibile.
Se forse De Tomaso poteva non aver contemplato nella chiamata di Frua la sua Mexico 1968, è abbastanza probabile però che il sanguigno argentino abbia sottilmente “premiato” Frua alla luce della “eretica” Quattroporte 1971. Una realizzazione ai più sconosciuta, ma davvero antagonista totale rispetto alla politica scarrocciata della Citroen nella gestione Maserati.
Perché se la “Quattroporte II” imposta da Parigi alla paziente opera di Giulio Alfieri per il V6 da 2700 cc ed al genio di Marcello Gandini per rendere almeno ammirevole una berlinona da quasi cinque metri e trazione anteriore. Così fu decisa dai francesi l’erede della prima serie “Quattroporte” disegnata proprio da Frua.
Che dunque, in modo del tutto autonomo, propone o forse addirittura “offre” ai francesi un possibile “Jolly” per riflettere toccando con mano cosa significhi lavorare su una Maserati rispettandone i canoni.
Presentata proprio in casa Citroen, al Salone di Parigi del 1971 da una mascotte di eccezione allo Stand Frua come Juan Manuel Fangio, la “Quattroporte Frua” presenta ed eleva alla ennesima potenza i migliori canoni del Tridente anche se, in verità, porge un pegno di onore ad un grande collega quale è proprio Marcello Gandini all’epoca in Bertone: il frontale richiama pienamente la palpebra rialzabile sopra i doppi fari ed il taglio affilato della calandra tipicamente gandiniano si lega ad una cintura e ad un posteriore che a sua volta celebra e sublima lo sviluppo lineare della “Fidia”.
Non sono ovviamente ricopiature, lo dimostra l’armonia unica con cui Frua accentua la leggera imponenza di una vetratura che per l’epoca è davvero panoramica ad incorniciare un salotto in stile Yacht.
Motore 4,7 litri V8 di prammatica e trazione assolutamente posteriore chiudono un bel guanto di sfida alla supercazzolafrancese della “Quattroporte II” di stampo Citroen
Dunque quando riceve da De Tomaso l’incarico della nuova Maserati e due chassis grezzi della “Longchamp” (uno per gli esterni ed uno per gli interni, si narra) Pietro Frua accende dentro di sé la scintilla creativa che lo porta alla fine a dare vita a qualcosa che pur mantenendo per mandato tutto quel che è possibile della coupè modenese di Alejandro riesce comunque a ritagliarsi una sua specificità.
Per essere sardonici, forse nella scelta dei gruppi ottici posteriori della nuova Maserati presi pari pari dalla Citroen SM c’è una sorta di schiaffo morale ai francesi del tipo:” l’unica volta che i proprietari di Supercar avrebbero visto da dietro e per lungo tempo i fanali posteriori di una Citroen Maserati poteva capitare solo su una “vera” Maserati”…
Perché la prima cosa che deve incastonarsi a mo’ di cameo nel cofano anteriore dello chassis Longchamp – una volta espiantato il V8 Ford Cleveland – è il prestigioso otto cilindri a V del genio di Alfieri, come detto (purtroppo) andato via da Modena.
E’ la coppia di V8 da 4200 cc e 4900 cc., l’ultima applicazione nella storia della Maserati del V8 Alfieri su una Coupè del Tridente ed in particolare per la 4200 parliamo della versione più evoluta della 450S.
Contemporaneamente la Longchamp è nativamente attrezzata per ospitare la sportività elegante del V8 Alfieri: grazie alla vocazione industriale degli impianti Ghia e Vignale che De Tomaso ha acquisito grazie all’appoggio di Ford a Detroit e della Rowan della moglie di Alejandro, la struttura della Longchamp è tutto fuorchèun esempio di artigianato amanuense vecchio stile.
Nessun telaio tubolare classico ma un semi-monoscocca con telaietti ausiliari davanti e dietro per gli elementi sospensivi e la trasmissione, tutto disegnato da Giampaolo Dallara. Rigidità, lavorabilità scalare, produzione in serie, comfort ed assetto. Allinclusive, un telaio che nasce per la Deauville e che accorciato arriva sulla Longchamp e sulla nuova Maserati di De Tomaso. Su quei due chassis grezzi della Longchamp Pietro Frua cuce in modo impeccabile un frontale iconico e pochi sapienti tocchi di personalizzazione estetica, oltre ad un interno degno dell’AgaKhan. E nasce così la prima nuova arma di De Tomaso per la rinascita della Maserati (cui poi seguirà la Quattroporte del 1979 su telaio Deauville), arriva sulle strade la prima nuova Coupè V8 del Tridente.
Per la quale viene scovato un nome evocativo: Kyalami, come il circuito sudafricano. Là, nel 1967, Pedro Rodiguez aveva portato al trionfo l’ultima impresa di Maserati in Formula Uno, il motore dodici cilindri montato dietro ad una Cooper. Impresa che poi fu sotterrata insieme ai programmi sportivi del Tridente sotto il controllo Citroen. E tra il 1976 ed il 1983, proprio in concomitanza con la scomparsa del suo papà elettivo Pietro Frua, la “Kyalami” diventa per sette anni una Reginetta in incognito di casa Maserati.
Riccardo Bellumori

