Questa storia potrebbe avere come preludio una catena di date: dal 23 Giugno 2000, passando per 24 Gennaio 2003, 27 maggio 2004, 15 marzo 2011, 18 Agosto 2020.
Venti anni esatti durante i quali vengono a mancare (nell’ordine: Enrico Cuccia, Gianni Agnelli, Umberto Agnelli, Vittorio Ghidella, Cesare Romiti) tutti i protagonisti di un decennio unico, irripetibile e glorioso per il Gruppo Fiat. Il decennio tra il 1979 ed il 1988 dove i nomi in elenco sono stati le figure del vertice più iconico del Marchio di Torino.
Purtroppo, perdonate la chiosa, la data più discriminante di tutte è però il 13 Dicembre 1997; anzi, scusate ancora: le due date che segnano per Fiat due “futuri” (uno che non si è mai avverato ed uno che si è interrotto forse troppo precocemente) sono il 13 Dicembre 1997 e ……..: la scomparsa di Giovanni Umberto Agnelli e quasi vent’anni dopo la morte di Sergio Marchionne.Era lui, e non certo John Elkann, il predestinato alla successione dell’Avvocato e del fratello Umberto a capofamiglia della generazione futura a guidare la Fiat. Forse, mi viene da pensare, con Giovanni Umberto ancora vivo dopo il 1997 Sergio Marchionne non avrebbe mai varcato le porte degli uffici di Mirafiori.
Dentro l’elenco che ho fatto sopra tuttavia appare un nome che davvero a Mirafiori non ha mai messo piede dentro un ufficio od una carica dirigenziale: è Enrico Cuccia, colui che fece crescere Mediobanca con ruolo di finanziamento e consulenza per varie aziende, tra le quali: La Fondiaria, Generali, SAI, Pirelli, Montedison (che nacque dalla fusione tra Montecatini e Edison del 1966), Olivetti, Mondadori;
per Fiat fu tante figure e ruoli in una sola persona: fu l’abile concertatore dell’ingresso della mano libica nel 1976, fu il regista di importanti aumenti di capitale, e si dice fosse molto legato a Cesare Romiti.
L’Ultimo aumento di capitale dentro Fiat operato da Cuccia con Mediobanca è del 1993. Da allora di certo Romiti diventa fino al 1998 un leader incombente affiancato dal fedelissimo Cantarella e ben poco influenzato dall’unico ed ultimo potenziale “antagonista” scelto da Gianni Agnelli, cioè Paolo Fresco.
Da quel momento e fino all’arrivo di Sergio Marchionne il purgatorio commerciale ed il declino industriale di Fiat viene alleviato da un solo toccasana: le rottamazioni e la campagna di incentivazione governativa, inaugurata, nemmeno a farlo apposta, dal Governo di tal Romano Prodi.
Agnelli, Cuccia, Mediobanca, Romiti, Pesenti e la Lancia, Romano Prodi, ed una Galassia di nomi che un povero uomo della strada come me fatica ad elencare e soprattutto a conoscere.
Certo, sono i nomi di un parziale elenco di “potenti” italiani di ieri e di oggi.
Ma sono anche la lista di una organizzazione di persone che dentro l’ambiente di Fiat hanno pesato, condizionato, guidato, vinto e perso dentro una dimensione che non era solo dentro l’Italia: ne era un pezzo fondamentale di impresa, redditi, economia, cultura, politica, futuro.
Un futuro segnato da una cifra che adesso suggestiona davvero parecchio: le vendite della sola Fiat Auto (comprese dunque solo Lancia ed Autobianchi, esclusa Alfa Romeo e gli altri Marchi non ancora acquisiti od assorbiti da Mirafiori) giravano alla media di 900.000 pezzi in un periodo continuato tra il 1986 incluso ed il 1990 incluso.
Il quinquennio più florido di Fiat Auto e irripetuto da allora fino ad oggi, con il “top” di vendite del 1989 con poco meno di un milione di pezzi venduti nell’anno.
Sembra incredibile pensare che 45 anni dopo tutta la produzione auto degli impianti italiani nel loro complesso è persino inferiore al dato di vendita parziale di un solo Gruppo Costruttore di allora.
Cosa è accaduto? No, nessun tentativo di descrivere cause possibili. Io le conosco bene ma servirebbero settimane di scritti e di resoconti per raccontare dettagliatamente.
Meglio, molto meglio descrivere quel che accadde fino ad un attimo prima che gli anni 90 iniziassero a portare giù come una parete di ghiaia in montagna la Fiat.
A quando Fiat compra Alfa Romeo, Innocenti e Maserati; comprando anche Cogefar ed unendola alla sua Impresit, e continuando uno shopping compulsivo verso Redazioni di giornali, diverse Aziende di settori complementari all’Auto, ed estende le sue mani un poco dappertutto. Un attimo prima di Mani Pulite sono Craxi e De Mita i contendenti duellanti nella politica nazionale, e poco prima del “CAF” il distinto fraseggio elettivo si costruisce a binari: c’è quello Agnelli/Craxi e c’è quello Romiti/De Mita.
Ma questo palcoscenico è già quello del declino di Fiat dentro un’Italia martoriata da Mani Pulite e dalla speculazione contro la Lira nello SME dentro un commercio mondiale in cui la svalutazione competitiva per dominare nell’Export capita a Cina ed Europa dell’Est. Dentro questo palcoscenico c’è la controscalata di Continental alla Pirelli e la disgregazione della chimica italiana con la vicenda Enimont.
Poco prima di tutto questo un altro sistema si disgrega: è il sistema di potere illuminato che dal 1979 al 1988 aveva visto al posto di comando della Fiat Auto Vittorio Ghidella La sua storia Ve l’ho descritta in almeno quattro post qui su Autoprove, e dunque non la ripeto anche perché per molti è nota. Ma perché – fondamentalmente – Gianni Agnelli ha bisogno e chiama a sé Ghidella dal 1978? Quale è il disegno di cui Fiat ha bisogno in quel momento?
Il Gruppo di Torino che nel 1969 si è data ad un primo shopping compulsivo di stampo feudale (ambito che si sposa perfettamente con l’indole dell’Avvocato) ed appare più come un ammasso di pasta lievita che sta per esplodere piuttosto che una divisione ragionata del pane da esporre strategicamente in vetrina. Serve dunque un mastro panificatore con il talento del Merchandiser di negozio, e Ghidella è la persona ideale.
Riceve da metà 1978 un Gruppo che in pancia ha Abarth, Autobianchi, Ferrari, Fiat, Iveco e Lancia: quest’ultima è rinata attraverso una struttura a due binari: quello sportivo di Stratos e Beta Montecarlo, curiosamente berlinette in stile Maranello con motore posteriore centrale; e quello commerciale “tutto avanti” di Beta e Gamma, figlie della cessata collaborazione con Citroen.
La ripartenza di Lancia è l’obbiettivo più delicato di tutto il sistema del Gruppo, dentro uno “scrigno” in cui il Marchio di Chivasso deve aderire “a sinistra” alla riconfigurazione in Griffe del Marchio Abath ed “a destra” alla evoluzione dentro Fiat della cara (in tutti i sensi) Ferrari.
Tutto questo dentro il sistema di lotta sindacale e la coda critica dell’austerity energetica.
Chiaro che, abbandonata l’enfasi e l’affascinamento dell’Avvocato verso il profilo multinazionale degli americani, e persa ormai per strada la forza industriale e simbolica del modello anglosassone, Mirafiori si trovi decisamente incline a guardare alla evoluzione della Volkswagen.
A sua volta un Gruppo che è praticamente esploso, in quella fine decennio Settanta, in corso di pochissimi anni. Il Marchio che aveva disseminato sé stesso nel mondo con Stabilimenti del Maggiolino e dei suoi diretti derivati aveva rapidamente cambiato pelle.
La trazione anteriore della NSU e il successo della Golf facevano da cornice al rilancio di Audi (acquisita nel 1965 da Mercedes) ed alla gestione critica di Porsche che, per sopravvivere, si era tripartita (Porsche Factory per la produzione di serie, il Reparto Corse per la promozione agonistica, e l’Outsourcing di Porsche Engineering e Porsche Design).
Ecco a cosa guarda Ghidella: ad una Fiat meno estesa in progetti impossibili di “branding” (progetto X1/8 e Fiat serie “130”) e radicata nell’offerta popolare ed utilitaristica; una “Autobianchi” che per gestire gli extracosti di uno Stabilimento a Desio che non decolla si mantiene sulla iconica best seller A112 (peccato non aver operato un rebranding della X1/4…) valorizzata dalla griffe Abarth; una Lancia che deve diventare la punta della piramide del valore del Gruppo anche, inesorabilmente, a discapito di un pezzo della Ferrari.
Che, nelle ipotesi del Management, dovrebbe anche un attimo rinforzare la capacità di autofinanziamento con la esternalizzazione di servizi e progetti.
Lasciando Iveco a crescere in modo inesorabile e vincente nel settore LCV.
Come si fa non leggere una parziale simmetria identitaria ed evolutiva tra il Gruppo Fiat nascente nelle mani di Ghidella e quella Volkswagen teorizzata da Ferdinand Piech?
Fiat come il Marchio di Wolfsburg, con in più un Brand Innocenti che VW non riesce minimamente a ricreare, così vezzoso e “French Kiss” come è diventato a Desio; Lancia come Audi, e ci riesce benissimo; Iveco come MAN, ed infine Ferrari come Porsche, tralasciando Abarth che a sua volta è una Griffe di valore che in Sassonia ci invidiano.
In mezzo a questo, il focus aziendale condiviso tra Ghidella e Agnelli è la ineludibile acquisizione di Maserati, detenuta per circa quattro anni nel 49% di possesso del capitale azionario di Citroen dal 1969 al 1974; una ennesima diga di ghiaia pronta a crollare ancora una volta su Maranello; ed infine, ma su questo siamo già ad anni Ottanta avviati, lo spazio da concedere all’ingresso di Alfa Romeo una volta decretato dall’IRI la impossibilità di detenere l’auto di Stato in Italia.
I risultati a partire già dal lancio della piattaforma Tipo 4 con Thema e Croma parlano chiaramente a favore dell’Ingegner Ghidella: in solo cinque anni dal 1979 al 1984 il Gruppo Fiat sforna ben sette nuovi modelli (Delta, Prisma e Croma per la Lancia; Panda, Uno, Regata e Croma per Fiat) più la nuova Gamma LCV per Iveco; mentre sulla Ferrari il vero trend didascalico è la simbiosi progettuale con Pininfarina. Estende la opzione Diesel e Turbodiesel sul 70% della Gamma Lancia e Fiat, ed introduce le opzioni sportive del Turbo anche per l’utilitaria Uno oltre alla estensione della Griffe Abarth per la Ritmo.
La “italocentricità” a mio avviso fa perdere a Fiat l’occasione per assicurare dentro Mirafiori la più succulenta occasione commerciale del decennio Ottanta, l’acquisizione di Saab che dopo gli accordi del Plaza del 1985 era franata in una crisi di export legata alla svalutazione del Dollaro sulla corona Svedese.
Ma dire questo è facile 40 anni dopo, in ragione del lavoro monumentale che Ghidella fa per rendere Fiat un Gruppo alla tedesca anziché una vecchia multinazionale all’americana.
Tutto perfetto, tutto ottimo. Se non fosse per la famosa vicenda “Fiat / Ford” del 1987. Ve la ricordate?
Alfa piena di debiti, l’Iri che decide di venderla e la Ford pronta a pagare subito 130 miliardi di Lire per il 19% delle azioni del Biscione con il target entro tre anni di totalizzare il 51% di controllo e chiudere al 100% al quinto anno dall’accordo di acquisizione. Tutto ciò garantendo sia i livelli occupazionali che la soglia produttiva minima di 400.000 auto all’anno in tutti e due gli Stabilimenti.
Valore stimato dell’operazione circa 3000 miliardi di Lire vuoto per pieno (cioè patrimonio, attrezzature, Impianti, diritti commerciali e debiti consolidati del Marchio). Che poi, tutto quel che Ford aveva promesso sarebbe stato realmente confermato, è tutto un altro paio di maniche.
Prodi ci sta, ma Romiti proprio no (e dire che ai tempi di Telit erano in pieno accordo…..) e l’italico assurdo del consociativismo porta il nemico pubblico numero uno di Cesarone (la TrimurtiCGIL/CISL/UIL che aveva ricevuto in piena faccia il cazzotto della marcia dei 40.000 del 1980….) ad appoggiare la cessione a Fiat appalesando i rischi del complotto plutogiudaicomassonicoamericano, mancando solo di citare Sacco e Vanzetti.
E il 14 Giugno del 1986 “l’Unità” trascrive nelle sue pagine una clamorosa ed invereconda bufala dichiarata da Cesare Romiti, testualmente a cristallizzare da un lato quanto il Manager capisse di mercato auto e dall’altra di quanto sussiego fosse composto il sodalizio tra stampa e “Kaiser” al punto da non provocare nessuna replica di correzione alla battuta seguente: “Se Alfa Romeo finisse alla Ford”- dichiara Romiti – “saremmo di fronte ad un nuovo caso Seat, che è stata comprata dalla Volkswagen ed è scomparsa”, riferendosi peraltro Cesarone ad un Marchio, quellospagnolo, che nato sulla piattaforma della produzione su licenza Fiat fino al 1983 non era mai realmente esistita come entità industriale propria ed autonoma.
Romiti incassa anche il favore di De Mita, mentre il PCI si divide e il PSI dominante di Craxi non si pronuncia. E’ ancora forte il rancore per quello strappo che Prodi e Romiti hanno provocato bocciando il piano di Telit (Telettra di Fiat più Italtel pubblica) nato dalla geniale Marisa Bellisario; e solo un mese prima Craxi ha fatto a braccio di ferro con Reagan su Sigonella, cassare da subito una profferta proveniente da Detroit non sarebbe sembrato un gran segno di buona volontà.
Ma alla fine sarà proprio Craxi a puntare la sua golden Share decisionale per sbloccare lo stallo nel confronto tra Fiat e Ford su Alfa Romeo.
Curiosamente Vittorio Ghidella è prudente: si sa che bramava come Agnelli l’annessione di Maserati (che in quel 1986 sta passando le piaghe d’Egitto con le autocombustioni delle Maserati Biturbo in California e che Alejandro De Tomaso cerca disperatamente di vendere alla Chrysler di Lee Iacocca, senza riuscirci); eppure l’ideologo di “Alfa Lancia Industriale SpA” registrata a Dicembre del 1986 come “scrigno” della tecnologia di pregio e di rappresentanza del Gruppo Fiat trattiene l’entusiasmo. Parla di “acquisto da far rientrare nelle strategie” (quasi fosse stato imprevisto e critico), e si limita a dire, rivolto ovviamente al Management che era preesistente a lui, che Fiat prima dell’arrivo dell’Ingegnere di Vercelli non avrebbe avuto la forza e l’immagine per combattere la Ford.
Su questa frase, decisamente, si concentra il vero stato d’animo di Ghidella: era appena iniziata la guerra dei lunghi coltelli tra lui e Romiti sulla possibilità di fusione Fiat/Ford che avrebbe di fatto creato il più forte polo automobilistico europeo ed il secondo al mondo dietro la ancora dominante General Motors.
E, caso strano, quella sorta di embrione di “Polo del Lusso” dentro al Gruppo Fiat (Alfa Lancia Industriale SpA) viene smantellata da Cantarella e Romiti dopo l’addio di Ghidella con l’avvenuta inglobazione di Alfa dentro Fiat SpA.
E’ il decreto della fine di un vero “Incastro dei Sogni” che aveva in mente Ghidella: senza assolutamente tralasciare la vocazione popolare e Mass Market di Fiat, Vittorio, in attesa dell’auspicato arrivo di Maserati alla corte di Mirafiori, concentra Arese, Chivasso e Desio in un Polo dei desideri con cui cominciare a rompere le uova nel paniere alla concorrenza inglese e tedesca; Autobianchi ed Abarth sarebbero potute forse confluire in una unica dimensione puntata contro le piccole sportive inglesi e francesi; ma all’opposto una nuova Maserati era pronta a sfidare Bentley, Jaguar, Aston Martin e le super Ammiraglie tedesche. Ed in mezzo Alfa e Lancia, già dotate per competere nel segmento “E” di lusso, con il supporto di una potenziale griffe “Ferrari” avrebbero puntato persino contro BMW Alpina, Mercedes AMG, Ford Shelby, ed al mercato USA. Per il Biscione addirittura Ghidella pensò di mantenere la trazione posteriore ed il “transaxle” tanto cari alle tedesche. Ma all’orizzonte sta per arrivare una bufera di stampo tipicamente transoceanico: l’affaire Ford / Fiat.
E’ il 13 Ottobre del 1985 e dalle pagine de “L’Unità” esce una dichiarazione di Gianni Agnelli che preannuncia una decisione finale di Fiat sulla ipotesi di accordo (o fusione) con la Ford Europe di Bob Lutz; una conclusione che conferma l’interesse di Torino nel consolidare il Business Auto di fronte ad un unico vero problema che l’Europa deve temere e che Ghidella prefigura con molta chiarezza: il pericolo giapponese.
Anche se da un lato questo è un motore forte per indurre i due colossi a costruire una Holding in grado di presidiare il 25% del mercato europeo (badate bene, con Fiat straordinariamente al galoppo con una quota all’epoca del 16% e la Ford ferma al 9%); ed anche se da più parti si discute della ipotesi sempre più probabile di uno spin off della famiglia Agnelli dall’Automotive configurato dal Marchio di famiglia, limitando l’influenza e la strategia non più sull’aspetto gestionale ed industriale ma sulla parte finanziaria; con tutto ciò non è facile da accettare in prima istanza la base ponderale di accordo proposta e caldeggiata da Ford, di un 49% di peso azionario a disposizione di Detroit, un 49% a carico di Torino ed il residuale 2% nelle mani della famiglia Agnelli con obbligo di cessione alla sola Ford.
Tuttavia qualcosa accade, qualcosa che esula al momento dalla cognizione palese e pubblica e che ho ritrovato in una lettera inviata nello spazio dei lettori de “La Repubblica” anni fa da Giuliana Borghesi in Ghidella. (Link): nella stessa lettera autografa la Signora ex moglie dell’Ingegner Vittorio ripercorre una storia ed un passaggio che possiamo datare tra i giorni seguenti a quell’articolo de “l’Unità” ed il successivo mese di Novembre quando matura lo stop alla contrattazione ed il dibattito sull’accordo. Ghidella studiò i preliminari di un accordo durante una intera settimana passata a Detroit (ritengo, personalmente, nel periodo di Marzo 1985) per poi lasciare spazio alla delegazione di Ford di visitare gli Stabilimenti di Fiat in Italia.
Si arriva dunque ad Autunno inoltrato – ad una proposta che – afferma la Signora Borghesi – sarebbe dovuta essere ratificata a Londra con la clausola discriminante dell’incarico a Vittorio Ghidella di guidare la nuova realtà societaria.
In quello stesso giorno in cui Agnelli e Romiti stavano compiendo il volo dall’Italia a Londra per la ratifica, la Signora ricostruisce il “no” decisamente imprevisto dell’Avvocato; colui che, espressamente, si può definire insieme al fratello Umberto il primo promotore della base di accordo con Ford e del mandato esplorativo conferito all’uomo che a metà anni Ottanta era sotto tutti i punti di vista “l’Automobile” a Torino.
Nemesi storica, come riferito da Paolo Fresco anni dopo in una altra intervista, anche su una ipotesi di accordo Daimler Fiat si configurarono le quasi identiche dinamiche.
Come molti sanno, la questione dell’accordo saltato tra Ford e Fiat fa esplodere la guerra frontale tra Ghidella e Romiti che deflagra nella malaugurata indagine interna avviata dall’A.D. Cesare sulla natura dei rapporti tra Fiat ed i suoi fornitori per appurare l’assenza di qualsivoglia elemento dubbio, o di favoritismo, o peggio di interessi privati nella struttura degli accordi tra il Gruppo di Torino e la sua Rete di fornitura.
Ma in un’Italia che si sta per imbucare nella palude dello scontro tra De Mita ed il CAF, nell’inferno di Tangentopoli e nella valanga della crisi dello SME contro la Lira, non può mancare la narrativa legata alla figura mitologica di Enrico Cuccia a fianco di Cesare Romiti. Dunque, la guerra tra Cesare e Ghidella dentro Fiat sarebbe alimentata da Via Filodrammatici per un motivo chiaro: l’affaire Ford/Fiat ha aperto una crepa nel quadro di controllo di tutta Mediobanca su Torino, e se l’accordo con Detroit si fosse materializzato avrebbe certamente realizzato l’obbiettivo di mercato di Ghidella portando il nuovo Gruppo a controllare almeno un quarto delle vendite di auto in Europa; ma avrebbe anche aperto spifferi pericolosi su Galassie, costellazioni e quadri astrali che la finanza familiare in Italia, orchestrata a due mani all’epoca da Enrico Cuccia, aveva saputo costruire tra relazioni, intrecci azionari e compagini di controllo.
Forse, di questo, Ghidella avrebbe dovuto averne contezza, come avrebbe potuto attendersi, per le proprie dimissioni (volontarie, sia chiaro, e mai richieste da Romiti) che la crisi dentro Fiat non sarebbe provenuta da chissà quale “bug” commerciale od industriale eventualmente imputabile ad errore strategico dell’Ingegnere di Vercelli;
ma no, per far entrare in crisi Ghidella, l’Amministratore Romiti si sarebbe limitato ad usare il più antiquato e sabaudo, oltre che casareccio, sistema di verifiche ispettive rimasto in vigore nello Statuto di Fiat anche ai tempi della robotizzazione e dell’elettronica: un sistema ispettivo che si poteva persino basare (come si verificò) di strane lettere anonime, delazioni, pettegolezzi che bastano per dare a Romiti il potere giurisdizionale per autorizzare una ispezione a tappeto sui fornitori di Fiat Auto; e – guarda caso – nel marasma spunta fuori un nome : Roltra SpA, sede in Barriera (Milano): progetta e produce componenti che finiscono nelle Croma, Thema, ed altre auto del Gruppo di Torino. Ghidella ne era stato Socio prima che la stessa Società entrasse nella dimensione della subfornitura verso Fiat, all’atto della quale iscrizione nell’Albo Fornitori Ghidella aveva ceduto tutte le quote ed aveva separato qualunque interesse od attività da Roltra, appunto. L’indagine finisce in una bolla di sapone, con nessuna possibilità di imputare alcunchè a Ghidella; ma dopo mesi di fuoco di fila mediatico e manageriale contro l’Ingegnere di Vercelli l’equilibrio, i rapporti e l’immagine sono travolti irrimediabilmente. Nulla si sa di quale eventuale motivazione o richiamo tuttavia dovesse o potesse essere oggetto lo stesso Romiti che aveva avviato una tempesta basandosi sul nulla. Anche su questo molti recensori parlano di una forte dose di sostegno politico di Cuccia verso Romiti.
Si chiude così, con le dimissioni, l’epopea straordinaria di Ghidella in Fiat.
Una epopea, come detto, a termine: dagli anni Novanta le Inchieste di Milano, la decadenza, la crisi e la fine di un modello industriale ed economico tricolore negli anni Ottanta avrebbe inesorabilmente portato in ogni caso “Re Sole” Vittorio Ghidella a capire che tutto il Gruppo Fiat, dentro quella Italia, senza un supporto forte di un Gruppo internazionale sarebbe stata una nuova “Provincia debole”.
Certo: con Ghidella la fusione Fiat Ford avrebbe visto Torino protagonista vincente. La fusione Stellantis degli Elkann con PSA – come si può vedere – ci rende partner molto più deboli dei francesi: e non è certo solo colpa di John. Forse è una colpa, tra quelle meno condannabili ed oscure, che un giorno forse si verranno a sapere di Cesare Romiti, luogotenente di Via Filodrammatici.
Riccardo Bellumori

