Triumph cento anni di storia per una vera Principessa popolare

Una storia inglese, ormai dimenticata.

Ne abbiamo raccontate tante su Autoprove lungo solo tre anni, e credo che difficilmente troverete un repertorio confrontabile su altre piattaforme. Perché come tante storie inglesi di inizio del secolo scorso ogni storia “british Style” declinata su questo nostro Blog comprende motori, società, territori, orgoglio ed appartenenza; e purtroppo, come ogni storia inglese del genere, è finita per morire per mano dello stesso popolo che l’aveva vista nascere, ma solo perché quel popolo ad un certo punto ha perso il contatto con sé stesso, schiavo delle sue tradizioni e della sua prosopopea. Oltre che di una guida politica devastante.

Il Marchio di cui per ultimo (al momento) Vi parlo è storico, rappresentativo ed emblematico anche della confusione che regnava sovrana, nel Regno, in un certo periodo storico.

Tre anni fa siamo partiti con un racconto della sua fine, cioè la Triumph Acclaim.

Triumph: il suo inizio con le biciclette

La sua storia però non parte dalla Gran Bretagna ma da Norimberga: da qui Siegfried Bettmann si stabilisce a Londra nel 1887 per importare e vendere biciclette, e le chiama da subito “Triumph”, per poi iniziare a produrle in modo autonomo a Coventry. Dalle bici è davvero un passo arrivare alle motociclette, e da là poco più di un secolo fa inizia la produzione di auto, nel 1923/1924.

Chi si ricorda più, chi lo sa che la Triumph ha compiutovirtualmente un secolo proprio nel 2024?

Le prime auto prodotte erano di target medio e popolare, ma bastò poco per capire che la concorrenza dei Marchi “mass market” della Gran Bretagna e dell’Europa non lasciava spazio, per cui dal 1930 il nuovo Management cambiò registro: auto di altissima Gamma con motori Coventry Climax e poi fatti in casa su progetto del genio interno Donald Haley, che poi decenni dopo si dedicò come ultimo progetto della sua vita alla Jensen Haley.

Parliamo di Triumph, dunque: un Marchio che tutti conoscono ma di cui Vi sfido a ricordare più di quattro macchine prodotte lungo 60 anni esatti di carriera; perché il 2024 segnava il centenario preciso dalla sua nascita ed il quarantennale dalla ultima auto uscita dalla Catena di montaggio con il suo Marchio, anche se la “Acclaim” della Triumph aveva appunto solo il Marchietto sui cofani.

L’ultima “Acclaim” basata sulla piattaforma della Honda “Ballade” usciva dalla fabbrica anglo-nipponica nel Settembre 1983, dopodiche smaltite le giacenze nel 1984 la “Triumph” cessava di esistere perché inglobata nel nuovo mega carrozzone Austin Rover.

Come accennavo sopra, negli anni ’30 il Marchio che aveva aperto gli Stabilimenti ad Holbrook Lane, decise di posizionarsi nel mercato Auto di Gamma prestigiosa, e con motori fatti in casa: scelte industriali che, a ridosso della Grande Guerra e poco dopo la Grande Depressione del ’29, significava in soldoni il preavviso di fallimento o quasi.

Infatti per mantenere in vita la Divisione Auto, la Triumph nel 1937 cedette le linee “Due Ruote” alla Ariel che continuò a produrre le moto del Marchio ma basandosi sulla sua linea industriale di Gamma.

Nel 1940 gli Impianti di Holbrook Lane furono distrutti dai bombardamenti, per cui per sopravvivere non rimase che entrare nel Gruppo Standard Motor che tuttavia divise la Gamma in due Marchi: 

Triumph Motor Limited a Canley nel 1945, dedicata alla produzione di modelli sportivi in alluminio (più facilmente reperibile dell’acciaio nel Dopoguerra inglese) non monoscocca ma con telaio spesso a traliccio; in più fu concordata la fornitura di motori alla Jaguar per un solo anno fino al 1946. A marchio Standard invece vennero vendute le più tradizionali berline di taglio popolare.

Dalla fine degli anni ’50 tuttavia il Boom commerciale delle sportive Triumph portò alla unificazione dei due Marchi ed alla scomparsa della Standard. 

Pessimo affare visto che il buon profilo delle sportive era annebbiato dallo scarsissimo appeal delle berline da lavoro e famiglia.

La politica avviata dai Governi laburisti di nazionalizzazione estesa e di aiuti governativi verso un po’ tutti i settori industriali toccò fortemente il mondo auto, con la ricomposizione della miriade di grandi e piccoli Costruttori nazionali dentro quattro Galassie: 

per proteggere l’Industria dell’Union Jack soprattutto dalla concorrenza, un numero impressionante di Marchi venne parcheggiato dentro quattro Gruppi: la Leyland Motors (che comprendeva MG, che ingloba anche Triumph e Rover e finirà per assorbire anche Land Rover);

la BMC – British Motor Corporation (Austin Motor, Riley, Wolseley, Alvin, Vanden Plas, Princess, Jaguar – Daimler, Nuffield – Morris);

poi il Gruppo Rootes (Sumbeam, Singer, Humber, Hillman, Frazer, Talbot) ed infine Rolls Royce-Bentley ed Aston Martin Lagonda.

Rimaneva infine una prestigiosa galassia di Marchi artigianali (Lotus, Bristol, Jensen, AC, etc..) comunque al “Top” di sportività e prestigio; anche per tutti questi Marchi auto, incredibilmente, il settore Pubblico avvia azioni piccole o grandi, sporadiche o consolidate, o limitate, di aiuto. 

I Governi più impegnati nell’iniezione di Sterline pubbliche all’Industria UK sono certo stati quelli di Harold Wilson e di James Callaghan, tra il 1964 ed il 1979; ma anche al Governo Conservatore di Edward Heath – il 4 Febbraio 1971 – era toccato di salvare la divisione aeronautica di Rolls Royce, finita in amministrazione controllata con oltre 75.000 lavoratori che da Hillington e dintorni rischiavano il posto.

Ma il primo boato della frana fu nel 1958 quando il Gruppo Rootes fu rilevato da Chrysler che “colonizzando” il Gruppo inglese (che aveva già conquistato il Sol Levante e che stava per diventare il primo produttore occidentale ad aprire uno Stabilimento in Romania) aveva aperto ufficialmente lo stato di crisi.

E si arriva nel 1968 quando la politica spinse per la maxi fusione tra British Motor Corporation e Leyland nell’ unico grande conglomerato “B.L.M.C.” (British Leyland Motor Corporation, poi nazionalizzato dal 1975 con i soldi pubblici di Sir Harlod Wilson) con ben 14 Marchi al suo interno.

Ed il terremoto non era finito, quando nel 1972 David Browncedeva la Aston Martin in crisi a “Company Development” ed il 30 Dicembre 1974 i lavoratori di ritorno dalle ferie di Natale trovavano “Sunnyside” (Quartier generale di Newoport Pagnell) chiusa perchè il Marchio era entrato in amministrazione controllata pre-liquidazione, e nel 1975 sarà temporaneamente salvata da due businessman americani fino al 1980.

Triumph entra in Leyland

Per questo la Triumph, entrata nel 1960 in Leyland fu presieduta dal Commissario di Governo Sir Donald Stokes che la guidò dentro il nuovo agglomerato British Leyland nato dalla fusione di Rover, British Motor e Jaguar entrata poi in Leyland.

La nuova Holding trasferì la produzione delle Triumph a Speke(Liverpool) per lasciare Coventry alla Jaguar: purtroppo tuttavia il Marchio di Sir Lyon era stato un parente scomodo anche per la “Vanden Plas” che dopo la sinergia con Rolls Royce nel 1964 e la parvenza di un futuro da Marchio produttore era tornata nel limbo che da anni la relegava al ruolo di semplice allestitore di lusso.

La Jaguar era di per sé sufficiente, dentro un raggruppamento automobilistico, a rappresentarne il segmento del lusso: motivo per cui nelle arzigogolate strategie commerciali di Gruppo, la “Triumph” finisce per essere profilata come la sorella maggiore della “M.G.”, con una Gamma di Roadster e Coupè e di berline di taglio sportivo più che di lusso.

Ma arriviamo alla forbice di anni più caratterizzante per la Triumph, a cavallo tra anni ’60 e ’70 in cui il Marchio vede la collaborazione di Michelotti e la nascita di alcune pietre miliari come la Dolomite Sprint, la Spitfire, la Stag, etc.

Arriva l’esportazione nei mercati esteri ed arrivano i fiumi di lamentele per la inaffidabilità e la complicazione della meccanica fatta in casa, che è perfetta per le Gare ma è impossibile nell’uso di tutti i giorni.

Nonostante tutto però il successo e gli appassionati in USA, Sudamerica, Europa, Giappone ed Australia non mancano. 

Triumph, il “papà” del motore Saab Turbo

A metà anni ’70 parte anche la sinergia industriale con la Saab attraverso la intermediazione dello specialista motoristico “Ricardo”, con la quale il marchio inglese in realtà non fa altro che cedere agli svedesi una linea di prodotto che progressivamente va a dismettere.

E purtroppo dei casini che la Triumph affronterà dalla seconda metà degli anni Settanta se ne renderanno conto molto bene dentro la Saab, con la “99”: 

per lanciare questo modello a suo modo rivoluzionario più ancora dei precedenti, la Casa di Trollhattan abbandona per sempre il Due Tempi e definisce una linea di motori di taglio “medio”. 

Il Partner motoristico era stato definito con la consulenza della “Ricardo Plc” che aveva promosso proprio il Triumph. 

Solo che le diverse evoluzioni del motore (persino la prima catalizzazione con sonda Lambda nel 1976 ed il primo Turbo del 1977) la Casa svedese dovette affrontarle per conto proprio senza alcun appoggio degli inglesi; questo portò la Saab studiare per la “900” la piattaforma “H Ecopower” da quasi 2000 cc a 2300 cc aspirati e Turbo.

A fronte dello sforzo autonomo per dotarsi di un suo motore, Saab tuttavia fece pagare caro alla Triumph il suo disimpegno, ritenendo nulle le specifiche di collaborazione relative alla condivisione di sviluppo. Tutto giusto, solo che per la Casa inglese significò la impossibilità di migliorare attraverso il lavoro degli svedesi il problema chiave della sua Gamma: la qualità.

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