Giulio Alfieri il poeta dei motori: il ricordo di un Cavaliere d’altri tempi

Aveva alcune doti soprannaturali come tecnico ma anche come persona e come Manager di Impresa, ma di una sua dote sono assolutamente sicuro pur non avendo avuto la fortuna e l’onore di conoscerlo personalmente: la dote della comunicativa, o meglio ancora l’arte di saper declinare ogni concetto motoristico complesso ed irraggiungibile dai profani, con una semplicità ed una pazienza che mostrava di Lui la vera prerogativa: come ogni divino creatore, avere dentro di sé il patrimonio unico e imponderabile del “sapere” e del “saper fare” lo rendeva anche straordinariamente affabile nel parlarne e didascalico nell’impartire involontarie lezioni di vera scienza.

Avevo solo dodici anni e nel divorare ogni settimana tutte le colonne degli articoli di Autosprint mi imbattei in un articolo su di lui: AS ne trattava nel suo encomiabile impegno di salvataggio e recupero della Lamborghini, per il cui risanamento dall’Amministrazione controllata il Legislatore aveva scelto proprio lui, per tutto quello che nella sua dignitosa ed esemplare professione ed etica aveva saputo assicurare al mondo dell’industria auto e non solo nazionale. 

Perché Lui, quel Poeta e cantore della migliore arte motoristica, aveva incrociato e forgiato dentro il suo Know How una miriade di esperienze, passioni, studi, osservazioni in ambito tecnologico esteso. Ma prima di rievocare l’articolo di AS ricordiamo i suoi inizi professionali, mantenendo un poco di sorpresa ancora perché davvero, alla luce di quasi un quarto di secolo dalla sua scomparsa, di “Lui” troppi tracciano e ripetono a pappagallo le soite litanie vuote.

 

“Lui” inizia alla Innocenti dall’età di 25 anni (un fenomeno laureato a tempo di record al Politecnico di Milano, per quei tempi): se persino nelle recensioni “impegnate” di questa esperienza trovate si e no due righe è perché i cronisti “impegnati” si dimenticano di dire che il ragazzo è già a tal punto fenomenale con i Due tempi da partecipare alla realizzazione del prototipo da Velocità “Lambretta” da quasi 200 Km/ora; e che Alfieri entra nello staff che progetta quel “V2” trasversale da 250 cc così incredibilmente prefiguratore del celebre “V2” Guzzi dell’Ingegner Carcano. 

L’Ingegnere Giulio Alfieri arriva tuttavia nel mondo che gli rapisce per sempre il cuore: è il 1953 e Maserati lo ingaggia per lo sviluppo del settore moto fino a quando una spartizione interna alla famiglia non porta alla separazione del settore “Due ruote” da quello auto nel quale viene “trasferito” Giulio. Che sviluppa e realizza un  nuovo corso che in qualche modo “marchia” il futuro del Tridente.

Il segno distintivo di Alfieri sono ovviamente i motori: il suo arrivo in Maserati coincide con la trasformazione della Gamma, che passa dalle motorizzazioni sportive con cubatura entro il tetto dei 2 litri all’ espansione verso i motori “nobili”: e non Vi dimenticate in tutto questo che nell’Italia ed Europa in ripresa dal Dopoguerra, con le dimensioni in gioco parlare già di 1300/1600 cc significava identificare auto di media categoria “impegnative” e dopo i 2500 si entrava nella “Terra di nessuno” dove in poche parole si confrontavano solo pochissimi Marchi eletti.

Rivoluzionario ortodosso: Giulio Alfieri, inarrivabile “marziano” della tecnologia

Arrivano le nuove architetture da 3000 e 3500 cc., da 6 ed 8 cilindri, quei leggendari e famosi V8 con le testate colorate di verde, dove la vera natura rivoluzionaria di Alfieri si sposa con la sua grande capacità di osservazione e di analisi. 

Alfieri è allo stesso tempo un creativo, un ortodosso ma anche uno strutturalista: è come se – alla stregua di quei grandi ed illuminati medici che nascono per quella professione – Giulio potesse capire i punti deboli di una struttura muovendola tra le sue mani.

Alfieri diventa per questo uno dei più capaci Ingegneri capaci di “dialogare” con i punti di saldatura, con le pressofusioni, con telai e monoblocchi. E’ come se potesse ascoltare il “respiro” di un motore in movimento oppure il lamento e la classica “schicchera” nervosa che emette un telaio in sofferenza come le ossa di un infortunato.

Per questo la sua supervisione va oltre il progetto specifico che lo impegna direttamente.

Avete presente quei maestri d’ascia od ebanisti che sanno capire dove fendere il legno con la lama, per ottenere solo le parti migliori dell’albero che cercano?

Avete presente quei maniscalchi rarissimi di una volta che venivano portati come Saggi dentro alle cave di marmo perché solo osservando la famosa venatura delle pietre potevano staccarne dalla roccia i volumi e le dimensioni geometriche secondo desiderio con un solo colpo di scalpello e martello?

Bene, Giulio Alfieri era a tal punto dotato di ingegno, osservazione e umiltà da non disdegnare di assistere per ore al lavoro dei mastri saldatori, o dei fonditori degli altiforni pur di decifrare ed assumere nel suo Know How capacità artigianali tramandate per generazioni.

Proprio per questo l’Ingegnere parmense non lavora mai per “capitoli” o sezioni alle sue creazioni. Certo, canonicamente lui è un “motorista” che però non trascura di supervisionare tutto il processo di concetto, progettazione e realizzazione di una supercar del Tridente.

ma soprattutto l’ingresso di Alfieri coincide con la nascita del filone Maserati “Gran Turismo”, cioè con un interesse che via via si sposta dalle corse alla produzione stradale della Casa del Tridente.

Il punto di svolta fu il periodo 1956/1957 quando, con la Maserati ancora protagonista del Mondiale F1, si gettarono le basi della storica 3500 GT, la prima Maserati di eccellenza costruita in grande serie dove il concetto dell’Ingegner Alfieri è quasi futuristico.

Lui ne fu il patrono, sobbarcandosi per mesi una fullimmersion in Inghilterra per conoscere (come ebbe modo di raccontare in una Conferenza nel 2000) la capacità degli inglesi di costruire macchine di qualità, curando i particolari e tenendo bassi i costi.

Maserati Scia’ di Persia: un nuovo Benchmark per il lusso a quattro ruote

La prova solenne di tutto questo è nella perfetta gestione del leggendario arrivo dello Scià di Persia a Modena nella fabbrica Maserati, nel 1958: Reza Palhavi, all’epoca (prima della rivoluzione Komehinista, per intenderci) esponente elettivo della dimensione principesca del Medioorientevagheggiato dall’Europa, si appassiona al nuovo imprinting allo stesso tempo sportivo e signorile del Tridente dato proprio da Alfieri capace di fondere l’emotività ormonale esplosiva delle Maserati nelle Competizioni con la classe tecnologica ed il lusso edonistico trasmesso dalle linee dei migliori Carrozzieri che si esaltavano sulle forme delle berline stradali. Ebbene, chi tra Coventry, Newport Pagnell, Maranello, Stoccarda ed altri Paradisi dell’auto non avrebbe fatto carte false per avere lo Scià di Persia dentro il loro Stabilimento? Per giorni l’opificio del Tridente viene piantonato dalla Guardia Reale del Principe e dalle forze dell’Ordine, mentre al suo interno Alfieri e Reza Palhavicreano in simbiosi uno dei modelli che hanno fatto storia nel mondo dell’auto di prestigio. Passo dopo passo prende forma, sotto la supervisione ed i consigli di Orsi e Alfieri, una fuori serie carrozzata dalla Touring e motorizzata con motori derivati dalla famosa 450S (da cui derivò la Mostro di Stirling Moss) dai cui monoblocchi Alfieri realizzò un motore da 355 cv, posizionandolo in un telaio rielaborato della 3500 GT.

Da quel pezzo unico derivò la famosa ed esclusiva mini serie della 5000 GT, l’apoteosi, se vogliamo, della famiglia del V8 Made in Alfieri, che nel 1963, limitato a 4,2 litri, equipaggiò la prima serie della Quattroporte.

Poi arrivano per mano od impulso di Alfieri tutte le altreMaserati: l’elenco delle realizzazioni del vulcanico ingegnere non finirebbe mai, quindi ne ricordo solo alcune: 3500 GT, Mexico, Quattroporte e Ghibli.

Crisi Maserati, il matrimonio mortale con i francesi, l’addio al Tridente

Mentre per Bora e Merak il suo apporto fu limitato alla parte meccanica, perché nel frattempo la Maserati passava sotto il controllo di Citroen e la cultura anticonvenzionale e “popolare” della Casa francese, unita ai timori per la nascente crisi energetica, si scontrarono molte volte con l’ “Umanesimo” motoristico” e la cultura aristocratica di Alfieri in campo meccanico.

La gamma dei superlativi V8 venne tuttavia relegata ad una sempre più esigua produzione Top dal nuovo corso Citroenavviato nel 1969 ad un passo dal fallimento del Marchio Maserati, che però toglie respiro alle Berline di prestigio, poichè Citroen impone sistematicamente la tagliola del V6 entro i 3000cc, con esempio più lampante della Quattroporte II Serie che solo per la maestria di Marcello Gandini e per la dedizione di Alfieri oggi è annoverata come un piccolo ma particolare gioiello tecnico ma che per colpa di Citroen (passata dentro Peugeot nel frattempo) fu un flop preannunciato. 

Come finì per essere un quasi flop la spaziale SM di Opron – la famosa Citroen Maserati – di cui Alfieri, con notevole disappunto, progettò il motore facendo tuttavia ben presente alla Citroen le controindicazioni di un piccolo 2700 cc su un corpo vettura due porte così pesante.
Ma la Casa francese mirava a conseguire il minimo peso fiscale che il Governo consentiva ad auto sotto certe soglie di cilindrata e potenza, l’intenzione si scontrò ovviamente con il gradimento quasi nullo del mercato.

Se con la “Quattroporte II” la Francia fa autogol nella porta tuttavia dell’Italia (che per un popolo finemente depravato come quello ex gallico fa sempre un gran bell’effetto di goduria, evidentemente) abortendo la seconda serie dell’unica vera “Ammiraglia” italiana dopo la fine della Lancia Flaminia ed insieme alla Iso “Fidia”; nel caso della “Citroen SM” l’autocastrazione francese fa un poco sorridere proprio noi italiani: da veri esperti – noi italiani – del concetto canonico della sportività sublime, vedere come Peugeot Citroen ha condannato una meraviglia assoluta di Coupè Luxury come la creatura di Opron (che sarebbe potuta essere dietro i consigli di Giulio Alfieri la concorrente predestinata contro – faccio rapido elenco – la Serie SL di Mercedes, la “CSI” di BMW, la “XJS” di Jaguar, e persino contro la “Camargue” Rolls Royce) a fare i funghi nelle giacenze delle Concessionarie che la regalarono – in fine vita – per pochi spicci fa davvero capire che nella storia la giustizia prima o poi arriva sempre. E che il tempo, nei confronti di Giulio Alfieri, è stato doverosamente galantuomo.
I continui mal di pancia e l’ipotesi di Citroen di chiudere lo stabilimento Maserati di Modena del 1975, probabilmente segnano il punto di non ritorno nei rapporti tra l’ingegnere italiano e la Casa francese. Che purtroppo, detto personalmente, torna a mettere becco mezzo secolo dopo nelle stanze del Tridente a Modena, ovvero chiudendo lo Stabilimento di Grugliasco, e tutto questo solo per un equivoco di legittimazione derivante dalla struttura propria di Stellantis…

A ridosso del cambio di “orbita”, da Citroen al De Tomaso, matura l’abbandono dell’ambiente che Alfieri amava, e che aveva contribuito a trasformare con cura. E, a quanto pare, la lezione di quell’epoca non l’ha imparata nessuno. A quanto ci direbbero le cronache, un ultimo sprazzo “francofono” utile alla causa (potenziale) di rinascita del Marchio dopo una serie di “topiche” stradali vede la sacra e disutile Dirigenza PSA optare per un impegno della Maserati nelle Competizioni dove, grazie a Dio, le perverse equazioni fisco-sociologiche del Codice della Strada transalpino non hanno dimora; e dove tuttavia, per non smentirsi, la classica pippa gollista e campanilista sotto la Torre Eiffel favorisce un marchio francese –la Ligier – in un progetto di prototipo “JS2” destinato con motore V8 da circa 4200 cc a correre la Le Mans del 1975. Programma abortito completamente non appena GEPI e De Tomaso procedono a rilevare Maserati dalle mani dei francesi. Il primo impegno di Giulio Alfieri “Consulente Autonomo” è con Laverda.

Da Laverda ad Honda, il mago dei motori lascia il segno nelle Due ruote

Il Marchio veneto nel 1976 comincia a sentire odore di crisi a causa di un mercato stradale europeo in cui è impossibile resistere ai giapponesi ed in cui un barlume di speranza spinge a concentrarsi su un rivoluzionario modello da Gran Turismo che, ponendosi a complemento rispetto all’offerta tradizionale di Harley Davdson e puntando però dritto al nuovo Target commerciale creato da Honda con la “GoldWing”, può ragionevolmente conquistare un suo mercato favorito dal forte gradimento che il Marchio Laverd

a ha ancora, negli anni Settanta, in America soprattutto dopo la fine dell’epopea MV Agusta. Giulio Alfieri riceve così l’incarico di riprendere un “vecchio pallino” di Breganze: un “V6” trasversale da almeno 1000 cc. (in tutta confidenza ricordavo che potesse essere persino più “cubato”) con trasmissione a cardano destinato a muovere una innovativa, comoda e poderosa “Gran Turismo stradale” per veri e propri viaggiatori seriali cui offrire una assoluta assenza di vibrazioni, un allungo micidiale, una rotondità di funzionamento ed una sonorità unica come solo un sei cilindri a V di 90° poteva fornire, e nel quale persino l’ingombro laterale di teste e canne di scarico avrebbero fornito protezione alle gambe da vento e freddo. Il problema è un altro: in una sorta di “taglia/cuci-copia/incolla” di prassi e filosofie strategiche un poco schizofreniche, nella Laverda in cui ormai regna abbastanza sensibile l’anarchia si costruisce una fesseria grossa come una casa: si travisa il trascinamento potenziale che ancora le competizioni (soprattutto le grandi classiche come “TT”, “Bol D’Or” ovvero Imola e Daytona) portano nelle dinamiche emotive del consumatore, unendo con l’ipotesi di realizzare, intorno al “V6” da Gran Turismo, un telaio ed una moto da destinare proprio al “Bol d’Or”. Vi lascio ricordare o prefigurare l’esito. 

Ovviamente i puristi dello sport e della tecnica motociclistica sono sempre stati contrastanti nel giudizio spassionato su quel “V6”, astrattamente un vero gioiello tecnologico ma inesorabilmente poco idoneo ad una moto da Competizione visto che il poco potenziale in più di cavalli (massimo 145 per Gare di Durata) rispetto al Benchmark delle Honda “4 in linea” 1100 cc si bruciava in un peso extra di quasi mezzo quintale in più. Ma di certo la responsabilità non fu di Alfieri ma del management veneto. Mi è piaciuto su questo incontrare il ricordo genuino e appassionato di un “Maestro” vero in tema di Laverda, l’amico straordinario Augusto Brettoni. 

Che sul ricordo di Giulio Alfieri traccia il profilo di un vero professionista, sempre cordiale, attento e pacato; regolarmente in completo classico e cravatta anche in contesti agonistici come quelli di un Box di circuito o nella analisi tecnica “diretta” magari chino per terra ad osservare coppe olio o forcelloni per poi rialzarsi sempre magicamente intonso e pulito, nonostante (immaginerete) le condizioni dei pavimenti o degli asfalti nei Paddock di Gara o delle Officine. Dopo l’esperienza in Laverda Giulio Alfieri accorda la sua estrema competenza tecnica alla Honda ad Atessa; dopo di che, si affaccia nella vita professionale di Giulio Alfieri una nuova sfida, quasi mezzo secolo fa.

Il Tribunale di Bologna decreta per la Lamborghini l’amministrazione controllata, e dopo due anni la pone in liquidazione, a seguito della quale (per fortuna) non si verifica la fine di un Marchio storico ma la sua rinascita, con lo sviluppo della Countach. 

Poco dopo arriverà in “Lamborghini” proprio Alfieri: il Tribunale di Bologna decreta la liquidazione giudiziaria, i famosi investitori presunti e appalesati si nascondono e arriverà alla fine una cordata svizzera; ma la nuova realtà societaria di Sant’Agata deve essere guidata da un Manager competente ed illuminato: Alfieri è perfetto e diventa Amministratore delegato della Nuova Automobili Ferruccio Lamborghini S.p.A. e riceve nelle mani un’Azienda che stava campando sull’assemblaggio concordato con Fiat per la “127 Rustica” proveniente dal Brasile; è Alfieri che tratta con le Banche ed il Governo, che ristruttura la linea produttiva e consente la evoluzione della “Urraco” in “Jalpa” e che evolve secondo modelli sostenibili industrialmente sia la Countach che l’evoluzione del suo 12 cilindri progettando Lui stesso un nuovo sistema di distribuzione a 48 valvole, di 5.200 cc. che erogava una potenza di 455 CV a 7.000 giri/min. capace di spingere la macchina, un’automobile con targa e libretto di circolazione, alla velocità di 340 km/h. Progetta e costruisce fuori strada e macchine da deserto da 200 km/h.; motori, anzi, mostri marini eroganti 1.000 CV.

E così facendo evita il collasso di un Marchio fondamentale per la storia dell’auto italiana.

Ed ora Un ricordo personale: in una intervista del 1985, su Autosprint, ricordo come con una capacità ed una chiarezza comprensibile dall’ “l’uomo della strada” come me, Alfieri spiegò un concetto criptico come quello della lubrificazione di un motore e dei relativi problemi (centrifugazione e rischio di emulsioni e schiume, sezioni dei condotti di passaggio, etc…) chiosando con una frase finale che raramente avrei mai più sentito da un tecnico : “Vede, l’olio molte volte è un amico, ma può diventare anche un nemico del motore“.

Potreste cercare anni, decenni: mai nessuno troverete capace di “umanizzare” in questo modo così semplice e coinvolgente la tecnica dei motori.

Pochi mesi dopo, sulla rivista “sorella” di AS mi capitò di leggere una intervista ad un altro “poeta” del motore, in questo caso per “due ruote”: Jan Thiel.

Nessun paragone o accostamento con l’Ingegner Giulio Alfieri, ma in questo contesto mi piaceva poter affiancare due modi “umani” di ritenere un motore.

 

Jan Thiel è stato un tecnico e preparatore di motori a due tempi per le competizioni di Velocità su Pista, davvero capace ed eccezionale: lui “sentiva” a tal punto i motori da arrivare a rispondere, al giornalista che gli chiedeva a che tipo di motore somigliasse il nostro cuore: “Un motore a Due tempi lamellare”. Ecco: l’umanesimo del motore è proprio in questi pochi ricordi.

Riccardo Bellumori

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