Perdere il controllo, perdere la vita: un binomio e nesso di causa inesorabile nelle corse di auto.
Inconcepibile, tuttavia, quando il binomio colpisce, in un incrocio di condizioni avverse, campioni che hanno fatto del totale controllo di una vettura da corsa o della Gara il proprio marchio vincente.
Ma alle volte il destino è davvero cinico, e riserva ai veri Semidei della Guida il destino fatale in occasione di eventi nei quali nulla lo avrebbe fatto presagire, nel contrasto con eventi precedenti nei quali la tragedia era stata evitata per un soffio.
Achille Varzi muove il Primo Luglio del 1948 durante il Gran Premio di Berna, alla guida di una Alfetta 158 dopo aver ritrovato la gioia della vittoria superando lo sconforto, l’imbarazzo, persino lo sprofondo umano e personale nel quale si era tuffato a causa della dipendenza da morfina ed eroina.
Achille quel giorno di Luglio si trova a correre sotto la pioggia, in un tratto di pista discesa ed in curva: la sua rinomata capacità di controllo derivava da una sensibilità estrema di tutto il corpo alla struttura ed alla dinamica della sua monoposto, e su questo la leggenda era diventata storia dopo il famoso racconto del quotidiano piegato in due e posto sotto la seduta di una delle sue auto da gara per permettere al suo corpo di inserirsi ad hoc nel cockpit.
La base del controllo era nel dosaggio perfetto e calibrato delle opportune “contromosse” da esercitare attraverso acceleratore, freno e sterzo soprattutto nelle reazioni scomposte o repentine dell’auto in curva; Achille era un maestro anche di eleganza, ed avendo la stessa capacità e talento di Nuvolari e dei suoi principali avversari di rango, esercitava entrambi in uno stile di guida tuttavia più “pulito” e meno arrembante e scomposto del “Nivola”.
Quel primo Luglio 1948, privo di riprese televisive, di Satellite o di Internet, trova gli spettatori ed operatori presenti a cercare di spiegare la dinamica dell’evento impossibile, fino ad allora, da annoverare nel destino di Varzi: la “158” sbanda, si intraversa; il Varzi delle cronistorie leggendarie, il pilota dell’Albo d’Oro inossidabile a quel punto sarebbe inesorabile: colpo di controsterzo in decisa correzione, accompagnamento sapiente del gas e recupero straordinario ed accademico del mezzo.
La pioggia leggera appena caduta, soprattutto in estate, è di per sé dannatamente perfida perché nei primi minuti di caduta “saponifica” e lascia galleggiare sull’asfalto l’insieme di residui fisici impalpabili “spalmati” a terra nei giorni di calura estiva: pollini, polvere, granelli di sabbia e terra diventano nell’emulsione con la prima acqua piovana una sorta di “gel” micidiale nell’effetto su gomme ed aderenza di un’auto. Questo un movente possibile? Chissà. Anche. Ma c’è qualcosa che in qualche osservatore più esperto ed attento tra pubblico ed operatori lancia il dubbio, il mistero: quella tipica “controreattività” esemplare del leggendario Achille in quel frangente sarebbe venuta meno, ritardando il tempo e la reazione di controllo sulla “Alfetta”; insomma un tempo impercettibilmente troppo lungo e ritardato di reazione che avrebbe portato la “158” su un angolo di scarto troppo marcato rispetto alla traiettoria di curva ideale.
Oppure c’è chi si spinge a segnalare una inaspettata ed inspiegabile eccessiva andatura di Varzi in condizioni climatiche avverse (proprio per quello che ho detto poco fa) e dunque un altro dubbio sulla serenità e sulla canonica visione di gara infallibile da parte del pilota.
Achille Varzi, risalito dalle profondità di un oceano di degrado fisico e personale grazie all’amore ed al sostegno della moglie, è un Dio con le ali comunque bruciate. Forse.
Varzi che compie le sue evoluzioni in quel primo Luglio è lo stesso che anni prima di quel dramma personale aveva il mondo ai suoi piedi, che dominava gare ed opinione pubblica?
In quella curva in controsterzo Achille scrive tutto il suo destino, o meglio lo vede scritto, il suo destino, dal fato avverso. La “158” si intraversa, Varzi tenta ed inizia il recupero in controsterzo. La curva è in discesa, l’inerzia del mezzo va regolata non più solo con il gas ma con scalate e con il freno.
La “158” rallenta ma si avvicina al limite di corda esterno dell’asfalto; Achille continua la controreazione sterzo/freno/sterzo mentre l’Alfetta continua, nel suo rallentamento, a scivolare all’esterno verso un fossato; sembra una moviola, che spezza il respiro degli osservatori assiepati a bordo strada.
Parliamo non di piste, all’epoca, ma di tracciati stradali: la ripresa dalla Guerra inizia così, nell’Europa del motorsport.
I “Circuiti” sono ancora tratti di strada pubblica chiusa al percorso cittadino, con tutti i limiti ed i pericoli corrispondenti. Ed il limite carreggiata, soprattutto nelle nuove sedi stradali post guerra, è dato da cigli, burroni, fossati, corsi d’acqua.
Al limite della lingua di asfalto ad esterno curva non ci sono reti o bandelle di confine. Ci sono ciuffi d’erba bagnata e subito un fosso.
Achille Varzi e Alberto Ascari, quella fine che un poco li unisce
Sarebbe il panorama ideale per una scampagnata. Ma è il teatro del dramma, nel periodo in cui i “caschi” protettivi erano solo un concetto filosofico sostituito nella maggioranza dei casi da copricapo in pelle tipo pilota di aereo oppure in tessuto leggero nei mesi caldi.
Qualcuno, come il geniale Piero Taruffi, alla luce della competenza e della mentalità ingegneristica si industria per realizzare in proprio elmetti rudimentali in fibra di vetro. Ma Achille Varzi, in quel primo Luglio 1948 non indossa un casco proprio perché la Federazione lo imporrà come obbligatorio soltanto da dopo il suo incidente.
La “158” sembra quasi ferma, alla vista del pubblico; in realtà la sua direzione longitudinale si è completamente trasformata in senso vettoriale ed è diventata laterale e tangente. Tutto questo in pochissimi secondi di tempo reale complessivo.
La ruota posteriore esterna intercetta prima l’erba viscida a filo asfalto; e forse in quel momento la posteriore interna fa quello che non dovrebbe: invece che aiutare l’Alfetta a tornare a centro pista “spinge” dall’interno anche il muso della vettura verso il prato. Che non è un prato, ma quel maledetto fossato. In un attimo la posteriore esterna della Alfetta vi piomba dentro accentuando il “risucchio” finale di tutta l’auto.
Si affacciano su quel maledetto fossato anche la ruota anteriore esterna e la posteriore interna. In un battere di ciglia per la “158” di Varzi è come sprofondare dentro un mare metaforico. Ma sarebbe meglio, il mare.
Achille è praticamente con la schiena sul limite posteriore dell’Alfetta il cui “codino” non offre alcuna resistenza o protezione, ovviamente.
Travolto dal peso della 158 che rincula ribaltandosi nel fossato, Varzi rimane intrappolato seduto al volante e sbatte la testa violentemente contro il patrimonio incolto offerto da quel contesto: terra battuta, radici, pietre.
E muore per il trauma fatale a cranio e collo: Lui, uscito dallo sprofondo della dipendenza e del pregiudizio, trova lamorte contro un semplice e rozzo fossato.
Cominciare un racconto su Alberto Ascari parlando della fine di Achille Varzi: perché?
Perché non essendo un “Guru” od un cattedratico di storia dell’auto mi sono appropriato di una storia importante del motorsport, una storia a me sconosciuta che ne ha appunto ricordata un’altra, entrambe terminate e compiute diversi lustri prima che io nascessi.
La storia di Alberto Ascari, nelle sue valenze sportive e nella tragedia finale ha molto in comune con lo stile e la fine drammatica di Achille Varzi. Certo, secondo me: ma ho deciso di raccontare Ascari sulla base del mio quadro storico di ricordo e conoscenza e non sulla base di recensioni “DOC” che lascio ad altri ambienti. In fondo, è un mio diritto.
Alberto Ascari, ragazzo ribelle nel nome del padre
Nel mese di Luglio, mese in cui scompare Achille Varzi, ma esattamente trent’anni prima nasce a Milano Alberto Ascari. E nel giorno e nel Gran Premio della tragedia di Varzi, Alberto corre su Maserati e arriva quinto. Ma Alberto corre con il ricordo del padre Antonio scolpito nella coscienza. Antonio, diventato e caduto Pilota e talento proprio dentro l’Alfa Romeo dove Varzi conobbe Enzo Ferrari, che fu il primo e l’ultimo Costruttore della vita di Alberto poiché questi iniziò la sua carriera nelle quattro ruote con la Auto Avio e finì la sua vita su un prototipo di Maranello.
Il legame del destino con Achille Varzi è quello per il quale Alfa Romeo chiese proprio ad Ascari di sostituire il vecchio campione deceduto per il resto di Stagione. L’unica volta nella quale Alberto corse con Alfa Romeo – sicuramente con il papà accanto, nell’abitacolo, come metaforico copilota – fu a Reims in quella Francia in cui (a Monthlery) perse la vita proprio papà Antonio. Alberto nasce trent’anni prima della scomparsa di Varzi, e muore quasi 30 anni dopo la scomparsa del padre. Non posso non essere suggestionato da questa cabala. Eppure, in quel 1948, sarebbe potuto accadere persino di non vedere Alberto Ascari correre Gare automobilistiche: finita la Guerra il nostro mitico Campione milanese era saldamente a capo della Commissionaria ed Officina Fiat rilevata insieme all’amico, collega Pilota e socio Gigi Villoresi poco prima dell’inizio del conflitto mondiale; ma in risposta alle esortazioni di quest’ultimo, Ascari era refrattario: da un lato aveva di che vivere con la sua attività, e dall’altra forse il suo simbolico patto ereditario con il papà si era diluito in quei buoni cinque anni prebellici di ottime prestazioni in moto ed auto, con l’acme raggiunto nel prendere il via alla Mille Miglia 1940 (partita il 28 Aprile, solo due giorni dopo quel “26” che vedremo essere un numero del destino per Ascari) con la “Auto Avio” passo corto numero 66.
Antonio e Alberto Ascari, destini divisi ed uniti dalle auto
I primi passi di Alberto Ascari derivano dall’essere figlio di Antonio, pilota a sua volta, che però il bambino ha fatto in tempo a vedere fino all’età di sette/otto anni. Il padre muore in un incidente di Gara, il 26 Luglio del 1925 a Monthleryguidando un’Alfa Romeo che sbatte contro una palizzata e sbalza il corpo del pilota fuori dell’auto uccidendolo per il volo drammatico contro il terreno.
La vita di Alberto Ascari a quel punto è allo stesso tempo combattuta e sublimata: la perdita del padre lo avvicina al mondo delle corse fino a stregarlo, ma nonostante una provenienza abbastanza agiata le condizioni familiari post mortem del capostipite Antonio costringono il giovanotto a sacrifici ed espedienti per poter vivere e coltivare il suo sogno.
Pur andando a scuola al Collegio Nazionale di Milano, Ascari rimase abbastanza refrattario alle regole ed alla disciplina, sempre nel segno della passione per le corse; al punto che per cercare di frenare le sue frequenti fughe al circuito di Monza, la mamma lo spostò ad Arezzo e poi a Macerata; per poi rendersi conto che la passione di “Ciccio” andava accompagnata, perché ad ostacolarla la rottura sarebbe stata inevitabile e perniciosa.
Alberto aveva sviluppato l’arte del padre: Antonio si era formato nella Officina avviata con il fratello e zio di Ciccio; ma mostrando decisamente più talento nella riparazione ed addirittura elaborazione di auto anche in modo estemporaneo, aveva deciso di trasferirsi a Milano dove venne assunto prima alla Officina “De Vecchi” e poi direttamente in Alfa Romeo come meccanico, poi Collaudatore; e poi………Antonio si era formato nella tecnica pura e professionale dell’autoriparatore e (purtroppo) nel fascino della guida sportiva: selezionato dall’Alfa Romeo aveva percorso onorevolmente le tappe di una carriera agonistica in salita, fino a quel maledetto giorno 26 di Luglio 1925: il mese ed il Marchio Costruttore sono terribilmente simmetrici con l’evento drammatico di Achille Varzi, ed in più il territorio francese luogo dell’incidente di Antonio Ascari non è molto distante da Berna.
Ma di tutto questo, in quel Luglio 1925, Alberto “Ciccio” Ascari non ha alcuna consapevolezza.
Ancora prima, con coraggio ed all’insaputa iniziale della mamma, Alberto inizia a correre in moto. E nel 1936 “Ciccio” ha l’occasione di inforcare una “Sertum 500” grazie alla disponibilità ed all’investimento agonistico del Patron Fausto Alberti che teneva a promuovere la sua “maxi” bicilindrica da 500 cc. presentata un anno e mezzo prima.Anche se, si dice, Alberto avrebbe nell’occasione dato in pegno un proprio orologio d’oro a garanzia dell’affidamento.
Il 27 Giugno del 1936 Ciccio Ascari è dunque debuttante nella Squadra di giovani promesse in una 24 Ore diRegolarità organizzata dall’Automobil Club di Milano.
La sua gara finisce prima del termine ma è l’inizio di un buon percorso in cui si fa notare per la sua capacità.
Ed anche qui…..La sua prima uscita di Gara in moto è datata “27”, la prima Gara in auto (Mille Miglia 1940) parte il “28” quasi a sfiorare sempre quel fatidico “26”…
Dalle moto alle auto, vola la carriera di “Ciccio” Ascari
Dopo aver acquistato una Gilera 500 nel 1937 arriva la chiamata (e il primo ingaggio) con la prestigiosa “Bianchi” di Desio; poi arriva la Moto Guzzi ma arriva anche Natale 1939, quando in un ristorante milanese Enzo Ferrari, Alberto ed il Conte Machiavelli progettano la loro prima uscita alla Mille Miglia 1940 con la neonata “Auto Avio”, tra brindisi, ravioli in brodo e cappone con la tradizionale mostarda.
Inizia la vita di Alberto Ascari nelle quattro ruote, a partire appunto dalla Mille Miglia del 1940 dove porta al debutto la Auto Avio 815 del futuro “Drake”.
Una parentesi pre-bellica di breve portata, prima che i cannoni ammutoliscano per un lungo periodo i tubi di scarico delle auto.
In questo frangente, poco tempo prima, Alberto Ascari aveva rilevato una commissionaria Fiat a Milano con annessa Officina.
Qui acquisisce insieme a Gigi Villoresi, suo collega di volante e suo socio ed amico nella attività di officina, il servizio di assistenza di mezzi militari e di servizio nella zona di Milano. Si dice che si sia trasferito sino in Africa per dare supporto ai mezzi del Regio Esercito;
ma la cosa più incredibile per me è sapere che terminata la Guerra Ciccio non sembra volerne sapere di tornare a correre. Vi sto infatti raccontando non la vita di Alberto Ascari ma le cose straordinarie che nessuno aveva mai presentato a me di lui prima d’ora. Nel 1947 sono Villoresi e Piero Taruffi a promuovere Alberto, abbastanza passivo, a tornare dietro ad un volante: Taruffi convince il patron della Cisitalia Dusio a far correre Ciccio su una D46 in Egitto, mentre Gigi Villoresi gli procura un contratto con la Maserati. E Ciccio non delude, perché sfiora la vittoria nel monomarca Cisitalia “Bey Trophy” in Egitto arrivando dietro a Cortese nella Prima Manche e proprio a Piero Taruffi nella seconda; e regala alla Maserati la prima vittoria di sempre per la “A6 GCS” a Modena.
Comincia l’ascesa di Ascari, che vince anche nelle Categorie “Grand Prix” propedeutiche alla ormai prossima “Formula Uno”.
Con l’aumentare dell’impegno agonistico iniziano anche le disavventure: se è vero che forse il peggiore incidente è quello di aprile 1951 alla Mille Miglia, dove Ascari uscendo di strada travolge a morte uno spettatore (ed è accusato di omicidio colposo ma assolto con formula piena), vi sono anche un incidente serio nel 1948 (testando su strada una Maserati è coinvolto in un brutto incidente); mentre nel 1949 rimane vittima di un brutto incidente in Brasile e riporta frattura della scapola ed incrinatura di due costole.
L’incidente ultimo mette fine al rapporto tra Maserati e Ciccio, che “torna” alla corte di Enzo Ferrari nel Marchio omonimo e consacra la sua immagine soprattutto perché un quarto di secolo dopo il papà Antonio vince nel 1949 il Gran Premio d’Italia a Monza.
Ma il capolavoro di Ciccio si può considerare la “Temporada” Argentina di Dicembre 1949: a caccia dell’idolo locale Fangio, nel teatro di una Gara massacrante, vince Ascari e con lui vince il simbolo del Cavallino e tutta l’Italia.
Ascari in Formula Uno, e quel leggendario “Rush” con Juan Manuel Fangio
E arriva l’epopea della “Formula Uno” e del Torneo Mondiale inaugurato nel 1950.
Qui “Ciccio” si ritaglia una fetta di record statistici che lo pongono nella schiera degli eletti della disciplina sportiva: conclude 32 Gran Premi di Formula Uno lungo sei stagioni, vincendone 13 e salendo sul Podio le altre 17 volte.
Insomma, Ascari o chiudeva la Gara sempre nei primi tre o quando questo non accadeva il motivo era in un ritiro per guasto od incidente.
Ha detenuto per sette decenni il record percentuale di Gran Premi vinti in una Stagione e solo Max Verstappen nel 2023 gli ha tolto lo scettro.
E’ partito in prima fila nel 50% delle partenze cui ha preso parte, ed ha ottenuto una Pole Position praticamente ogni tre Gare e mezza alle quali ha preso parte. E’ uno dei soli due Campioni Iridati insieme ad un certo Jim Clark ad aver vinto il Titolo con il massimo dei punti possibili.
Sempre in tema di velocità nessuno ha ancora tolto a Ciccio il record storico di Giri più Veloci conquistati in Gare consecutive, e di certo ancora si attiene al rango di Ascari il titolo di “Gran Maestro” del Nurburgring: cinque Pole Position, sei Giri più Veloci e sei vittorie.
Ah, e poi perché negare l’evidenza storica più elementare? Alberto Ascari è il primo e tale resterà nella storia ad aver vinto più di una volta un Titolo Mondiale in F1.
A livello del nostro tricolore, Alberto Ascari è l’ultimo Italiano a vincere Titoli di Formula Uno e l’unico con più di un Titolo. E’ inoltre il primo Pilota a dare una vittoria mondiale alla Lancia, ed ovviamente Alberto è anche un motivo determinante per l’abbandono della Formula Uno e della ritirata sportiva da parte del marchio di Borgo San Paolo.
Ecco, così, spiegato il senso del titolo di questo pezzo: con statistiche e percentuali degne del mitizzato brasiliano, Ascari si confronta davvero come nuova leva contro l’artiglieria pesante di Campioni straordinari alla guida di vere e proprie macchine da guerra;
ma rispetto al Guru di Sau Paolo il nostro milanesissimo Alberto ha dei primati incontrovertibili: il primo di sempre ad aver regalato un Titolo Piloti ed una Doppietta in F1 alla Ferrari, il primo ad aver battuto nel confronto Juan Fangio “Il Campionissimo” anche a casa sua, e soprattutto Ascari vanta il primato di aver saputo vincere anche con monoposto e squadre ritenute inferiori alla concorrenza del tempo.
Nella cabala del destino di Alberto Ascari c’è poi un “unicum” involontario: non per sua scelta il primo e l’ultimo Gran Premio della sua carriera in Formula Uno si sono tenuti a Montecarlo.
Ascari, la scaramanzia, il talento e l’azzardo
Ascari era un Pilota completo e moderno: sensibile alla meccanica della sua monoposto sui permetteva da subito condotte aggressive proprio perché il suo feeling con l’auto era immediato, e poi controllava la Gara evitando di stressare e rompere qualche componente.
Famoso nel mondo delle corse per la sua forte superstizione, non partecipava mai ad un Gran Premio senza la sua maglia e il suo casco azzurro e stava bene attento ad indossare le scarpe da corsa in un determinato ordine; inoltre non si separava mai da due regali avuti dai figli: una madonnina ed un portachiavi.
Sapeva essere così convincente nella sua scaramanzia da avere coinvolto anche Villoresi, il quale prese l’abitudine dell’amico di gareggiare sempre con la stessa maglietta.
Proprio a fronte di tutto questo Villoresi rimase profondamente scosso dalla morte di Ascari in virtù del fatto che il giorno dell’incidente era venuto meno a tutte le sue collaudate routine, salendo in macchina in abiti borghesi e senza il suo inseparabile casco azzurro.
Si è invece poco parlato di un incidente “preconizzante” e per questo ancora più inquietante, perché avvenuto un anno prima della tragedia, e sempre a Monza: stessa identica curva dell’anno dopo, con la Lancia D50 che si intraversa a causa del passaggio accidentale su un accumulo fradicio di foglie “spalmato” sull’asfalto a causa di un temporale avvenuto la notte prima; l’auto esce di strada ed impatta contro una staccionata, per fortuna senza gravi danni al pilota. Sarebbe opportuno quasi richiamare in causa la scaramanzia proverbiale di Ascari che richiama implicitamente pignoleria e metodicità nelle azioni e nelle mosse da compiere; e poi Alberto nella sua iniziale storia di Campione non era certo un improvvisatore: era uno che aveva fegato, di certo non un pavido ma neppure uno scriteriato. Ed allora, se Voi foste me e voleste superare le cronache ufficiali al riguardo, pensereste che davvero Alberto Ascari ad inizio 1954 lascia il Marchio vincente di casa per sposare una nuova avventura del Marchio Lancia e soltanto per guadagnare di più? Se la verità storica è questa, ok: Ascari nel 1954 se l’à cercata, finendo venticinquesimo in un angolo buio di classifica e di notorietà che – potete immaginare, nel gossip e nel giornalismo dell’epoca – avrà visto gli “untori” di professione prendere a sassate l’idolo delle folle reo di aver abbandonato il Cavallino per pochi spiccioli.
Ma fu davvero così? Ecco, proviamo a prendere due commentatori a confronto (uno contro, l’altro a favore della Ferrari) per almeno tre eventi didascalici nei rapporti tra Drake e Piloti: uno è proprio il caso di Fangio, il secondo è rivolto a Niki Lauda ed il terzo a Gilles Villeneuve; da questi spaccati si rivela una attitudine di Enzo Ferrari a svolgere un ruolo di Saturno “terreno” impegnato molto spesso a “smozzicare” i semidei da lui stesso creati o ricercati per evitare che il carisma dei campionissimi potesse adombrare la figura divina del Cavallino. C’è chi parla di rapporti freddi e tesi tra Ascari e Ferrari, di comunicazioni verbali negate e di telefax e telegrammi didascalici come base per un accordo nel 1954.
E di là, a Borgo San Paolo, ovviamente Lancia non può che mettere sul tavolo, per accompagnare un nuovo progetto carico di rischi ed alea, un bonus economico da svenimento, ma questo non significa che Ferrari volesse sottopagare Ascari, ma solo che in ogni disciplina e frangente di sport la Squadra Rookie per ingolosire i campioni deve saper offrire più soldi delle vincenti.
Il binomio in Lancia, la crisi, e la paura di non essere più “IL” Ascari?
La Stagione 1954 può essere registrata come “promettente” solo alla sua immadiata scadenza; ma di certo lascia spazio nelle cronache invernali a una pioggia di dibattiti, commenti e forse di critiche alla volta di un Ascari dominatore assoluto che si è buttato in una impresa impossibile: la “D50” Lancia Ferrari in quella Stagione è tardiva, priva di preparazione, fragile e solo apparentemente molto veloce ma per pochissimi giri o frazioni di Gara. Ascari chiude la Stagione al 25° Posto iridato.
Davanti a lui, Campione del mondo in carica, tutti: già questo credo sia il dato necessario e sufficiente per provare a disegnare lo stato d’animo che investe Alberto alla fine dell’anno nel quale è passato dagli altari alla polvere. Arbitrario pensare che questo sentimento non sia stato immediatamente “vincolante” per la sua serenità?
Sapere di essere sempre Ascari, dentro se’ stesso: ma di leggersi nelle statistiche e capire di non essere più in quel momento “IL” Ascari, o meglio “Re” Ascari può aver creato una suggestione?
Quel che è certo, è che il mondo non gli “abbuona” la prestazione atipica per la giustificazione della D50 sperimentale: un campionissimo va in sella al puledro vincente, sempre, e questa è la regola che non ammette deroghe ma eccezioni come la vittoria alla “Mille Miglia” di quell’anno con la Lancia D24; ma il Campionato di F1 viene affrontato da Ascari alternando i volanti di Ferrari e Maserati a quello di una Lancia che, ripeto, è velocissima in prova e nei GpV ma non arriva così frequentemente al traguardo. In verità in quel 1954/1955 nessuno davvero conosce una verità che – divulgata solo pochi semestri dopo – avrebbe fatto di Alberto Ascari una sorta di salvatore della Patria. La Lancia di Patron Vincenzo, morto nel 1937 passa dopo un breve interregno nelle mani del ventiquattrenne figlio Gianni. E’ il 1948, proprio nel Luglio in cui muore Varzi e Alberto Ascari corre un Gran Premio con l’Alfa Romeo. E proprio Alfa è la bestia nera di Lancia: è il benchmark di Borgo San Paolo sia in termini commerciali (numeri, fatturato, listini e margini) sia per la gamma e per il confronto auto. E non a caso la Lancia aveva partorito il progetto Formula Uno dopo il ritiro di Alfa, per evitare il confronto diretto. Ma Gianni Lancia nel 1954 ha appena trent’anni, ed è schiavo a sua volta (come Alberto) dell’ombra paterna. Ecco perché sogna una Lancia multinazionale ed industrializzata ma alla fine rimanda ed addirittura soffoca iniziative o risorse per il cambiamento, cercando di onorare i paradigmi paterni su immagine e modello industriale.
Lancia tuttavia NON cresce nei volumi produttivi e neppure nell’esportazione, non si presenta in Borsa e neppure accetta una quota importante di finanziamenti pubblici dell’IMI. Ma alla maniera del vecchio Piero Dusio di Cisitalia travolto dalla crisi a sua volta, Gianni Lancia sceglie la via più difficile per rilanciare il suo Marchio: le gare sportive. Ed è il fallimento, conclamato proprio tra il tuffo a Montecarlo di Alberto Ascari e quel maledetto 26 Maggio 1955. Eppure Gianni Lancia si diceva all’epoca aver versato un assegnonecome ingaggio per Ascari. Ed allora cosa è evidentemente accaduto?
Alberto Ascari, il primo figlio divorato da SaturnEnzo?
Ecco allora una domanda che, nella lettura non ortodossa che faccio della vita di Ascari, mi pongo due domande: perché un appena Bi-campione del mondo saldamente capitano nella sua Squadra a Maranello decide di saltare gli argini ed atterrare dove è il massimo punto di ignoto seppur stimolante ed appassionante?
Dopo quasi cinque Stagioni da vessillo Ferrari, un fulmine a ciel sereno sconvolge davvero la cronaca mondana e sportiva: l’anti-Fangio, il campionissimo nazionale, il demolitore di record, ma soprattutto la fonte battesimale della Ferrari nella F1 in cui con la rossa di Maranello si è permesso di affrontare colossi nazionali ed internazionali rispetto al profilo artigianale del Cavallino lascia la sua freccia rosso fuoco?
Ovviamente lo scandalo segue allo stupore anche perché Ferrari è appunto la miglior Italia d’Italia nel motorsport, e tradirla significa esporre Maranello e tutta la Penisola alla mercè delle squadre e dei Costruttori esteri due dei quali tra l’altro (Mercedes e Ford) non hanno fatto mistero in quegli anni di voler praticare un po’ di shopping in Italia. Eppure, come detto, il curriculum vitae di Ferrari non tradisce e non inganna: cinico, evangelico e minatorio quanto basta per esercitare ruoli da Padre Padrone nella sua factory dove il Codice Etico lo dettava la Gara ogni Domenica, il Codice comportamentale lo scriveva il Drake in persona mentre il Codice di comunicazione sarebbe quasi potuto iniziare metaforicamente con un “Tutti per la Ferrari, nessuno più della Ferrari, Ferrari più di tutto e tutti”.
Ed allora, quale poteva essere l’animo di Alberto Ascari, da quando l’amico Villoresi lo aveva esortato a rimettersi al volante nel 1947 fino a otto anni dopo quando, forse senza neppure rendersene conto, era diventato un Re delle Piste? Poteva in un Cavaliere diventato Re cominciare a nascere la paura di non essere più un Re e di dover chiudere la sua storia senza più la possibilità di essere il migliore? Era forse questo l’incubo di chi disse”Senza le corse la mia esistenza non avrebbe senso”?
Per assurdo forse l’eredità ed il peso dinastico che Alberto aveva subito nei primi anni di percorso sportivo erano stati sepolti da precisi doveri e velleità che “Ciccio” riteneva forse a questo punto di avere verso se’ stesso e da una unica lancinante consapevolezza: per vincere in F1 serviva la Ferrari visto che alla Mercedes, ancora alla vigilia del 1955, la presenza di Fangio e Moss rendeva onirico qualunque altro innesto di “galli da combattimento”.
Sono solo mie sciocche conclusioni? Forse. Tuttavia lacontinuità nelle corse la da’ obbiettivamente il dono di saper combattere spesso per le prime posizioni, e certo non era questo il problema di Ascari; ma assaporare il podio, la corona, il primato diventa un sortilegio che non ti abbandona, e per poter stare in vetta occorrevano all’epoca squadre alle quali Ciccio aveva detto “No” per aderire alla Lancia. E di certo Ascari aveva cominciato a sentire odore di crisi a Borgo San Paolo. Questo è indiscutibile.
Quando Villoresi disse: “Alberto aveva paura”
Forse, all’alba di quel 1955, Ciccio temeva di non riuscire più a ritornare in vetta? Forse. Non è un’ansia da poco: ed è un’ansia che Ascari converte in un super lavoro di sviluppo invernale della “D50” per rendere l’arma da guerra Lancia non solo veloce ma anche affidabile.
E finalmente “D50” vince, anche se in cosiddette Gare di contorno, alle quali spesso si dava corso per motivi promozionali e propagandistici.
Ma in Argentina, prima Gara di Stagione e a casa del rivale d’eccellenza Fangio, Alberto si ritira uscendo di pista e piegando i braccetti della sospensione anteriore a causa di uno scivolone su una pozza di olio: tutto da rifare, gara “bucata”.
Secondo appuntamento di Stagione a Montecarlo, 22 Maggio. 100 Giri e 314 Km. Solito campo di battaglia, inaugurato nelle Prove di qualificazione da due Generali di rango: Fangio e Ascari tornano spalla contro spalla, segnando entrambi lo stesso miglior tempo, caso eccezionale. La Pole va all’argentino ma finalmente lo Squadrone Lancia si toglie la soddisfazione di mettere in Griglia tre “D50” davanti alle Ferrari. Chissà, il vento è cambiato, ma il “Boss” di Borgo San Paolo è sempre e solo Ascari. Sembra che a Monaco il vento sia cambiato: Alberto ha in effetti sbagliato partenza (subito quarto), si ritrova insperatamente secondo a metà Gara, perfettamente in andatura, ad un minuto e 22 secondi da Stirling Moss sulla seconda Mercedes.
La prima, quella di Fangio, si è appena rotta. Evento, anche questo, eccezionale: come è eccezionale il ritmo di Gara folle che Moss e Ascari danno al Gran Premio in cui a quel punto tutti sono stati doppiati. Ascari è di nuovo il cecchino infallibile che punta alla sua preda. E la preda è una Mercedes argento guidata da un ancora giovane Stirling Moss. Alberto rosicchia secondi e forse fa capire di potercela fare, e sotto di lui quella velocissima ma fragile “D50” è un tutt’uno con il suo Driver e non accenna a problemi né a crisi. Sembra lei, la tedesca. Per questo Moss esagera: tra il Giro 70° e quello numero “79” Stirling probabilmente si infervora o forse si agita e basta: torna ad aumentare il vantaggio e la distanza su Alberto, probabilmente perché capisce che Ascari potrebbe farsi sotto negli ultimi giri e forse ha bisogno di una nuova sosta ai Box verso i venti giri dalla fine.
E qui avviene davvero il miracolo di strategia di Gara. Alberto resta secondo e si prepara al rush finale fino all’attimo in cui con una fumata inequivocabile la freccia d’argento fa capire al mondo che non ce l’ha fatta. Siamo ad un passo dal Tunnel, ed Alberto svicola elegantemente tra la barriera di protezione da un lato e la Mercedes che va a passo di lumaca in modo imbarazzante. Lancia sola in testa con il suo vero mentore. Se Ascari vincesse “questo” Montecarlo forse come in un Risiko tutte le pedine andrebbero al posto giusto: la situazione di Lancia, l’umore di Ciccio, il sogno mondiale, ed infine quel maledetto 26 Maggio. Ma all’ottantesimo Giro un freno anteriore che si inceppa o solo la chiazza d’olio di Moss costruisce il fatto apocalittico: la Lancia “D50” va per i fatti suoi verso destra. Qui Ascari può scegliere se fermarsi contro un muretto di cemento, allungare contro una tribuna gremita o infilare la via del mare. Il suo sogno finisce qui, il nostro campione lascia a Castellottila piazza d’onore dopo Trintignant su Ferrari. Lui risale dall’acqua del mare e viene ricoverato per sicurezza. Ha il setto nasale rotto, contusioni ed incrinature a diverse ossa ma è illeso; è solo sotto shock, non si capisce se per l’impatto ed il tuffo o per l’occasione sfumata.
Solo quattro giorni, solo pochissimi quattro giorni ed il destino lo porterà via. Dentro ad un mistero mai davvero risolto.
Ciao, Ciccio, il primo a fare grande l’Italia “seriale” sul tetto del mondo in Formula Uno.
Riccardo Bellumori