Carlo Talamo tra sogno e scommessa

Siamo nel 1952: in Italia la “Aermacchi”, gloriosa Casa aeronautica, affianca all’unico prodotto stradale prodotto sino a quel momento (un motocarro a tre ruote) il “Macchi 125 N” una due ruote a metà tra una moto ed uno scooter a ruote alte: la sua raffinatezza è nella “componibilità” di un serbatoio centrale supplementare che permette di raddoppiare la percorrenza in caso di uso turistico, permettendo in caso di rimozione di avere la pedana centrale libera per il trasporto di volumi.

In quell’anno la Harley Davidson vive il colpo di coda della sua immagine gloriosa costruita nell’immediato Dopoguerra, nel quale sommava il ruolo di “liberatrice” dagli oppressori con quello di “icona” a Stelle e Strisce in un mondo che puntava alla ricostruzione. 

In particolare insieme ad una Gamma completissima che va dalla 165 cc a 2 tempi di origine DKW fino alla cubatura di 1200 per la Serie “Glide”, appare la novità per quel tempo della “K” da 750 cc, destinata ad aprire nuovi spazi commerciali.

Sempre in quel 1952, il 18 Novembre, dal nobile casato di radici partenopee della famiglia Talamo Atenolfi –Marchesi di Castelnuovo – nasce Carlo Fulvio, meglio conosciuto e celebrato anni dopo come: Carlo Talamo.

Una cosa non è mai la stessa per tutti. Varia a seconda del punto di vista di ciascuno.

Dal punto di vista commerciale, sotto l’aspetto della immagine sul mercato di un prodotto, siamo stati assuefatti da una “segmentazione” di prodotto basata sul singolo e specifico punto di vista di ciascun Produttore nel costruire, presentare e differenziare una propria creatura destinata ad un segmento o ad un settore popolato da beni affini, paragonabili o perlomeno contrassegnati da un insieme di comuni caratteristiche discriminanti.

Un insieme di parole, quelle sopra, per determinare da cosa sia nata o derivi la “Targettizzazione” di un mercato, per come siamo stati abituati a viverlo.

Abbastanza usuale, in questo processo, vedere prodotti concorrenti che si sovrappongono dentro uno stesso “settore” di mercato.

Meno facile vedere prodotti così specifici dentro quel settore, grazie al punto di vista diverso del Costruttore, capaci di rientrare nel cosiddetto “ambito di nicchia”.

Ancora meno facile vedere prodotti che, per la rivoluzionaria visione del Costruttore, creano nicchie e settori di mercato del tutto nuovi.

E quest’ultima condizione è venuta sempre meno con il perfezionarsi dei mercati, e direi che tra la metà degli anni Ottanta ed inizio del nuovo millennio questo rarissimo fenomeno è avvenuto in soli due casi mondiali: l’Espace della Renault in Francia nel 1984; la “MCC Smart” del 1996 (Germania/Svizzera); ed in mezzo una rivoluzione tutta nostra, fatta in casa: la “Numero Uno” e la visione rivoluzionaria da parte di Carlo Talamo, a metà anni Ottanta.

Cos’è il Genio? Semplice: è stato Carlo Talamo!

Ma Talamo ha un primato che nel mercato motociclistico è rimasto, in quell’arco temporale, unico ed inimitato: Carlo non ha intermediato un concetto rivoluzionario a lui trasmesso dalla Casa mandante. E’ stato lui stesso, quasi sostituendosi al management di H-D, a creare dal nulla una nicchia, un concetto, e persino un target di Clienti.

Carlo Talamo inizio’ proprio quaranta anni fa dal rilevare il mandato Harley Davidson dalla Cagiva dei fratelli Castiglioni. Si dice che l’incontro sia maturato dentro una Officina dove uno dei fratelli portava in assistenza la sua Ferrari; da là i primi contatti e poi l’accordo.

Un romano verace, in grado di rappresentarsi e di dialogare con tutti ma forte di radici da reale sangue Blu, capace di far tornare regina anche l’Aquila di Milwakee.

Cosa era Harley Davidson in quel periodo (primi anni Ottanta) in Italia e dal lato dell’immagine? In Italia un mercato di poche decine di pezzi al mese, vendute da una Rete che cominciava a fare dell’immagine giovanile e della produzione di piccola cilindrata un Must: Cagiva aveva fatto il salto di qualità con la “Aletta Rossa 125” e si preparava alla alleanza con Ducati nel settore delle grandi cilindrate. 

In questo il format Harley sembrava non avere nessun legame o attinenza con la nuova visione strategica di Schiranna.

Cosa era Harley Davison vista a livello globale? Beh, l’icona di Easy Rider era tramontata da tempo: in America tra l’altro anche la “Indian” aveva chiuso i battenti nel 1958, e la moto era semplicemente uno svago slegato dalle esigenze di mobilità chilometrica delle Highways sulle quali appunto solo gli emuli di Easy Rider si avventuravano con la due ruote. 

Quel film tra l’altro fu visto da alcuni come una sorta di volantino promozionale per il passaggio di Harley dentro la galassia AMF-American Machine and Foundry, quello che si definirebbe oggi un “polo del lusso”  che ha tentato di tenere in piedi H-D per dodici anni dopo averla acquisita per 14 milioni di Dollari. 

Peccato che quella acquisizione dovette fare i conti con cinque “burrasche” convergenti: la contestazione giovanile ed il 1968, l’abiura dei simboli americani dopo gli orrori del Vietnam, gli Stati Uniti in recessione, la crisi energetica, l’esplosione del fenomeno giapponese. 

Tra l’altro la mancanza di “skills” gestionali dentro AMF fu causa di un aumento dell’assenteismo e di un crollo verticale della qualità produttiva, legata (si dice) anche alla selezione di un pool di fornitori decisamente scadente. In questo frangente si ricordano eventi positivi come l’apertura di una nuova sede in Pennsylvania nel 1973, e l’uscita di modelli a loro modo iconici come la Electra Glide, la XLCR 1000 Cafè Racer e la XR 750 impegnata nelle categorie AMA.

Harley Davidson, anni Settanta: l’aquila punta verso il basso…

Tuttavia la situazione economica e commerciale non tornò mai in positivo e alla fine degli anni Settanta si rasentò di nuovo il Default. 

La situazione era a tal punto critica che si dice addirittura che prima della fine degli anni Settanta i quattro Costruttori giapponesi – riuniti da Soichiro Honda in persona – si sarebbero incontrati per definire un patto collettivo di “non belligeranza” verso il Marchio di Milwakee. 

In pratica, con un mercato americano che stava esplodendo dalle immatricolazioni di moto orientali, i quattro decisero di escludere dall’Import verso gli Stati Uniti i modelli direttamente concorrenti delle H.D., cioè le Custom e le Cruiser superattrezzate per i lunghissimi viaggi sulle Highways americane. 

Tuttavia dall’accordo sarebbe stata parzialmente esonerata la stravenduta “GL 1000 Gold Wing” per la quale Honda aveva persino predisposto una linea di montaggio in Ohio.

In parallelo, si stava persino decidendo se limitare l’accesso alle forniture di Polizia ed Istituzioni (il caso delle Kawasaki presenti nella serie “C.H.I.P.S.” fu un caso mediatico e controverso per mesi, negli USA), sebbene su questo i quattro avrebbero ritenuto solo di fare un piacere a Moto Guzzi, Norton e BMW, i Costruttori extra USA ugualmente coinvolti negli appalti pubblici Federali e statali.

Il motivo di una scelta “astensionista” di questa portata? Un elemento di sensibilità e di prudenza tipicamente orientale: la Harley Davidson da un lato era un Marchio in piena crisi e sull’orlo di un Default; l’acquisizione da parte del Gruppo AMF non aveva sortito grandi effetti positivi, e il rischio di un fallimento e di una chiusura del Marchio per mano della superiorità commerciale giapponese si riteneva sarebbe stato un boomerang a livello di empatia con il popolo di consumatori statunitensi.

Da un altro lato l’ipotesi estrema di un “salvataggio” aziendale con l’ingresso di uno dei Marchi giapponesi dentro H-D era visto come una cura peggiore del male: l’indebitamento del Marchio dell’Aquila era talmente elevato da sconsigliarne il rilevamento da parte di altri Costruttori.

E poi c’era infine un aspetto simbolico non indifferente: con la sua presenza Harley era il Firewall contro l’immagine dei bicilindrici Guzzi e BMW, il che non era affatto un elemento secondario da valutare.

Fatto sta che nel 1981, probabilmente rassicurati dalle prospettive di un Congresso che stava ragionando sulla applicazione di “Superdazi” sull’import di moto giapponesi oltre i 700 cc., un Gruppo di coraggiosi investitori – per lo più dirigenti del Marchio guidati da Willie G-Davidson, nipote del cofondatore William – rileva da AMF il pacchetto azionario di Harley Davidson. L’esborso è notevole al punto che quasi tutti i nuovi proprietari sono costretti a sottoscrivere prestiti per gli 80 milioni di Dollari necessari al passaggio, mettendo a garanzia le proprie stesse quote azionarie. 

Il che diventa un potenziale Boomerang quando la situazione precipita ancora di più nel 1982: nuova recessione “di inizio decennio” alla quale ormai gli USA ci avevano abituato, nuovo boom di import da Giappone, Italia e Germania; ed un piano di tagli e licenziamenti che Harley non vedeva da un quarto di secolo. 

Il pressing del Management al Governo Reagan, con la minaccia di liquidare il Marchio, porta “finalmente” al varo della famigerata supertassa sui listini delle moto di importazione oltre i 700 cc.; un dazio che sulle maxi moto da un litro e oltre arriva fino al 48% del prezzo di listino. 

Praticamente un muro contro l’acquisto di moto estere, che tra il 1982 ed il 1984 porta (pochi) effetti benefici. Tra i quali uno dei pochi “vezzi” mondani che il nuovo Management aveva forse ripreso dalla AMF: la creazione di un “Harley Owners Club) in grado di supportare i clienti con eventi tematici.

H-D Aermacchi, i Castiglioni e quell’Officina Ferrari

Ma torniamo un attimo in Italia: cosa c’entra lo Stivale con Harley Davidson? C’entra ricostruendo il percorso dal mito di Aermacchi. Quando nel 1960 la Casamadre aeronautica decide di rendere la Divisione motociclistica un Marchio autonomo (mantenendone il 50% di controllo azionario), costituisce una J.V. con Harley Davidson, finalizzata alla realizzazione di una Gamma di prodotto che, forte del feeling con la produzione europea, fosse accattivante anche per il Cliente americano interessato alle piccole e medie cilindrate. 

Nasce Aermacchi Harley Davidson, sede a Milano e stabilimenti a Varese, che tiene in vita il classico mono 4T orizzontale cui si aggiunge un Due Tempi 125 e la nuovissima 350 GTS.

Purtroppo la fine degli anni Sessanta, con le tensioni sociopolitiche e la concorrenza giapponese porta i suoi problemi dentro Aermacchi come negli USA dentro H-D.

Nel 1972 effetto finale è l’uscita di Aermacchi Casamadre dal settore moto e la cessione totale dell’asset alla Harley: nasce dunque la AMF-Harley Davidson che dura fino al 1978 quando Milwakee mette in liquidazione la struttura euro-italiana consentendo ai fratelli Castiglioni di rilevarla fondando di fatto la Ca.Gi.Va. 

Questa deriva dalla trasformazione della “Giovanni Castiglioni SpA” con la SIAC di Cavaria. Cagiva si propone al mercato inizialmente con la revisione (più grafica che tecnica) della Gamma SST- SXT da 125 fino a 350 cc; sul versante “Maxi” ovviamente i Castiglioni conservano lo status di Importatori e Distributori ufficiali delle “grosse” di Milwakee. Ma è una attività davvero accessoria e rispetto alla quale Claudio Castiglioni in primis dimostra di non credere; o forse, visti gli sviluppi, dimostra una visuale strategica molto settoriale: mentre Cagiva cresce verso il boom di “Aletta Rossa”, le poderose V-Twin americane rimangono relegate a poche centinaia di pezzi annui. Facile prevedere che Claudio Castiglioni avrebbe prima o poi deciso di disfarsi di questo “fardello”.

Prima di Carlo, tanti Dealer H-D. Ma nessuno ha fatto la storia come Lui

Non sapeva, il Manager di Schiranna, che da qualche parte esisteva un Carlo Talamo pronto a rispondere alle attese dei Manager di Schiranna. Ed in effetti probabilmente la forza di Carlo fu di aver visto scenari non concepibili dai suoi predecessori e “colleghi”.

Non che, infatti, mancassero Dealer e Centri di Autoriparazione attivi sul territorio prima di Talamo: pensiamo ad esempio al “Team Cappelletti” di Roma, un mercato comunque talmente vasto da rendere i Dealer Capitolini dei veri “trust” temuti e rispettati anche dalle Case mandanti; oppure a “GA Import” che ad inizio anni ’80 inizia con la negoziazione a Venezia di piccoli lotti di Harley (nuove ed usate) di provenienza EEC, per far seguito poco dopo al Broking transnazionale di volumi più importanti.

Senza dimenticare il capostipite dei Dealer Harley Davidson in Italia: Via Camerana, Torino, con una foto iconica dal sito istituzionale della ex Concessionaria: Vincenzo Borgarello, primo ed unico importatore per l’Italia dal 1915, immortalato appunto in una foto insieme a William Harley ed Arthur Davidson davanti alle insegne del punto vendita.

Diciamo tutto quel che vogliamo, ma questa forza territoriale non è riuscita ad imprimere la svolta ed a raggiungere i risultati ottenuti da Carlo, con il suo progetto.

Che, come detto, secondo la letteratura di prammatica nasce dal contatto di Talamo con i fratelli Castiglioni nell’officina dove veniva curata la Ferrari di Claudio: simpatia, feeling, un po’ di sana incoscienza da entrambe le parti e l’accordo è fatto, inizialmente pare anche per l’import delle Husqvarna.

Numero Uno: Harley-town, da Milano parte la rinascita H-D

Ed il 26 Giugno, come riportano le cronache, nasce “Numero Uno” con le energie di Carlo insieme a Roberto Crepaldi e Max Brun. Il locale lo trovano loro; la Gamma e lo Stock in vendita, il magazzino ricambi e tutto il corredo di base lo mette appunto Cagiva che cede la gestione commerciale. Il resto si può anche annoverare nella “buona sorte”: la campagna di dazi, il ritorno di una immagine positiva per la nazione americana ma anche, aggiungerei, l’impatto mediatico di TV (provate a contare sulle dita di due mani gli episodi di Telefilm, le Serie ed i Kolossal che annoverano in scena una H-D: forse due  mani non bastano) e delle Riviste di settore portano al Marchio della “Screamin’ Eagle” un riverbero commerciale fortissimo. 

Nel 1985 Harley presenta una Gamma fortemente rinnovata e nel 1987 è lo stesso Management di Milwakee a chiedere al Governo Reagan di abolire i superdazi. 

In quel momento H-D è fuori dalla crisi, e Harley torna alla redditività  ad inizio anni ’90, ma nel frattempo il mercato nazionale USA propone al Marchio un target sempre più anziano: una ricerca del “New York Times” basata sul report del “Motorcycle Industry Council” di Irvine in California aveva misurato che se l’età media del Cliente di moto negli USA era di 25 anni nel 1980, nel 1990 si era innalzata a 32 e a fine anni Novanta convergeva sui 40, ma l’innalzamento era dovuto principalmente al Cliente Harley, con una media di oltre 45 anni!!! 

Dunque H-D aveva ricominciato a guardare con forte interesse i mercati extra-USA, e di certo l’esperienza della “Numero Uno” potrebbe aver fatto da Benchmark, o da “traino”: il periodo che va fino alla seconda metà anni ’90 è da vera “pacchia” per H-D: vendite in escalation, previsioni produttive da 200.000 pezzi all’anno, listini in aumento; ottimo panorama, al punto che il Management decide di dare impulso al programma per “BUELL”.

Carlo Talamo non dorme sugli allori e con i suoi Soci inizia a scalare tra obbiettivi diversi: dopo e con Harley la sua passione è la Triumph. Poi arriverà la Bentley, ma qui siamo su storie e dimensioni diverse. Non abbiamo tutto lo spazio per parlarne.

Il fenomeno Talamo, il  mondo Harley, la dimensione romantica

Fine anni ’80, da assiduo lettore di una Rivista geniale (che meriterebbe di essere rieditata e riprodotta in Tipografia a beneficio delle generazioni future) che si chiamava “MotoTecnica” a cura di un bravissimo Bruno De Prato, mi accorgo che ad un certo punto, soprattutto sulle ultime di Copertina appare una pubblicità strana: scenari con ambientazioni surreali per quanto sono “rustiche”; spesso una moto cromaticamente incombente (la Harley) ed accanto un ragazzo uomo, longilineo e con il capello lungo; sempre un po’ tra l’accigliato e l’attomnito, quasi attenda dal pubblico una reazione od una domanda. Ma soprattutto, a campeggiare, una serie di vere e proprie “poesie”: lunghe, lente e cadenzate quasi a simulare il borbottio delle H-D più desiderate.

Dove le pubblicità di altre moto mettono slogan e titoli con sigle di modelli, lui mette pensieri e rime; dove gli altri elencano dati tecnici, prestazioni ed altro lui lascia passare solo il tema della “dimensione Harley”; al punto che chiamarle “pubblicità” stona un poco: parliamo più, direi, di un “Diario di bordo” del passaggio epocale di un “Odisseo” che sembra finalmente aver raggiunto la sua Itaca. 

Il colpo di genio di Carlo è di aver saputo costruire nel suo pubblico quelle esigenze che poi lui stesso è riuscito a soddisfare. Cosa era la Società italiana, in quel momento, e cosa era il mercato motociclistico? L’Italia era il famoso “treno” economico che aveva smesso di ammirarsi nello Stagno, come aveva fatto nell’epoca dei pieni anni Ottanta e della “Milano da Bere”. Dopo le “galoppate” industriali e di Borsa il Paese doveva “aprirsi” alla nuova dimensione europea ed era tempo di riflessioni, di prese di coscienza; il consumismo e l’edonismo stavano lasciando posto ai “valori” rappresentati in diversi casi dai “Brand”. Talamo è stato geniale nello scomporre il profilo e l’archetipo Harley per presentarla come un modello di razionalità, di solidità e dunque di tenuta nel tempo, e nel valore. Non immagine fine a se’ stessa ma status legato alla “tanta roba” offerta e rappresentata da una Harley.

“Oggi Harley ha detto che la nuova Soft si chiamerà Night Train”

Un approccio che permette a Talamo di familiarizzare a tal punto con le H-D da riuscire – da perfetto buongustaio italiano, ottimo creativo e Designer, ma soprattutto da straordinario “interfaccia del Cliente” – a “vestire” le bicilindriche ed a trasformarle in pezzi unici per ciascun Cliente: in lui abitano l’occhio lungo del venditore, la classe del Pubblicitario, l’empatia del Comunicatore, la classe del Designer ed artista. La gamma di accessori e di gadget di “Numero Uno” supera la fantasia, e Carlo stesso si diletta di predisporre e battezzare quasi nuovi concept che possono considerarsi modelli specifici della Gamma H-D per l’Italia…voluti da “Numero Uno”.

Tutto questo ha un momento simbolico che Carlo Talamo stesso celebra sulle pagine delle Riviste che pubblicano il suo “Diario di Bordo”. Se una delle sue intuizioni era stata la “Night Train”, Harley Davidson annuncia ad Ottobre 1997 che la sua nuova Gamma “Softail” si chiamerà ufficialmente appunto “Night Train”. 

Un grande – piccolo riconoscimento al genio di Carlo, precursore di mode. Un motivo in più, tra i tanti, per rimpiangerlo.

Riccardo Bellumori

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